Alcamo, la strage dei carabinieri e quei quattro innocenti condannati ingiustamente
Ad Alcamo Marina, un paesino in provincia di Trapani, nel 1976 c'era una minuscola caserma dei carabinieri a pochi chilometri dal mare. Il 26 gennaio, nella piccola stazione a una manciata di minuti da Trapani, ci sono due militari in servizio. Sono il 19enne, Carmine Apuzzo,di Castellammare di Stabia (Napoli), da un anno nell’Arma e il 35enne Salvatore Falcetta, appuntato di Castel Vetrano. Quella notte di pioggia entrambi stanno dormendo nelle loro brande quando qualcuno forza la porta del piccolo stabile con una fiamma ossidrica. In pochi istanti una gragnola di colpi raggiunge i due militari, che muoiono sul colpo. Dalla piccolissima caserma scompaiono alcune pistole e divise. A denunciare l'accaduto alla polizia, l'indomani, saranno gli agenti della scorta del segretario dell’MSI, Giorgio Almirante che sta attraversano la statale alle 7 del mattino. Da Napoli, intanto, giunge un nucleo anti-crimine delegato a scoprire i responsabili di quel massacro, ne fa parte il giovane brigadiere Renato Olindo. Alla guida c'è Gustavo Pignero che poi futuro generale e elemento di rilievo del Sismi.
La strage alla Casermetta
Nelle ore seguenti il Nucelo Sicilia Armata rivendica la strage con un volantino. Esponenti delle Brigate Rosse, però, smentiscono di aver mai progettato il duplice omicidio: quel volantino è un falso. Dunque, se non si è trattato di un delitto di matrice politica, come i colleghi delle vittime credevano, chi mai può aver pianificato la morte di due militari in quella sparuta casermetta di paese? La risposta, concludono gli investigatori, sta nei traffici che avvengono al porto, dove attraccano navi cariche di sigarette di contrabbando, droga e armi. Forse i due carabinieri avevano pestato i piedi a uno dei capimafia locali a capo dei traffici illeciti. Quelli sono sì gli anni della lotta politica armata, ma anche quelli in cui Cosa nostra consolida il proprio controllo del territorio affondando le radici anche nel tessuto politico locale. Nella zona di Trapani è la famiglia Rimi a comandare su tutti. A capo ci sono, Vincenzo e Filippo, che diventerà il cognato di Gaetano Badalamenti. La cosca ha con aderenze politiche importanti nella Democrazia cristiana.
La ‘confessione'
Le indagini vedono una svolta con l'arresto di Giuseppe Vesco, fermato alla guida di un’auto rubata e trovato in possesso di due pistole, una delle quali compatibile con quella usata nella casermetta, l’altra, pensano i carabinieri, potrebbe essere quella rubata nell'edificio. I carabinieri si convincono che Vesco possa aver fatto parte del commando che uccise Falcetta e Apuzzo. Vesco nega, dice di essere solo un corriere che doveva consegnare le armi. A chi, si rifiuta categoricamente di dirlo. Dopo un lunghissimo interrogatorio i miliari ottengono da lui i nomi dei tre complici che quella notte fecero irruzione ad Alcamo: sono Giovanni Mandalà, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. I tre vengono trascinati fuori dalle loro case e interrogati per ore. Alla fine tutti firmano la confessione. Vesco, invece, ritratta tutto e dice di aver accusato persone innocenti per non rivelare i nomi dei veri colpevoli. Viene trovato impiccato nella sua cella pochi giorni dopo. I tre vengono condannati per il barbaro eccidio di due militari. Il caso è chiuso, o forse no.
Torturati come prigionieri (dai carabinieri)
Nel 2007, dopo che è stato arrestato e condannato un altro presunto complice, Gaetano Santangelo, qualcuno spariglia le carte. È il brigadiere Renato Olindo, che il giorno dopo la strage fu inviato da Napoli a occuparsi del caso e che prese parte agli ‘interrogatori' dei sospettati. Olindo afferma di aver assistito a sevizie e torture. Appena fermato Vesco fu legato e disteso nudo su un tavolo, dove fu costretto a bere acqua salata fin quasi ad annegare e dove fu sottoposto a scariche elettriche nei genitali, inflitte con un vecchio telefono da campo. Dopo ore di atroci sofferenze l'uomo fece quattro nomi. Nessuno di loro, però, aveva a che fare con la strage. Gulotta e gli altri furono seviziati allo stesso modo e anche a loro fu estorta la confessione. Olindo, minacciò di denunciare quanto stava accadendo e se ne dissociò, tuttavia il processo andò avanti senza che gli imputati (innocenti) fossero scagionati.
La strategia della tensione
Intanto anche un pentito di mafia, Leonardo Messina comincia a fare delle dichiarazioni che fanno sorgere non pochi dubbi su quanto accaduto nella casermetta. L'ex boss dice che la strage è stata un errore. Fu la famiglia a decidere e poi a revocare il piano, solo che il contrordine era arrivato troppo tardi. In questa prospettiva, quello che appare oscuro è il movente: perché trucidare due carabinieri in quella minuscola caserma di provincia? La risposta, probabilmente, è da ricercare nella cosiddetta ‘strategia della tensione' all'interno della quale la mafia aveva programmato una serie di attacchi allo stato. Nel 2011, dopo 22 anni di ingiusta carcerazione, è infine arrivato il processo di revisione e nel 2012 la sentenza di proscioglimento per i tre condannati. Giuseppe Scibilia, Elio Di Bona, Giovanni Provenzano e Fiorino Pignatella, i quattro carabinieri che torturano gli indagati sono stati accusati di sequestro di persona e lesioni gravissime.
L'epilogo
Oggi Giuseppe Gulotta, 59 anni imprenditore edile, vive a Certaldo, in Toscana. Sarà risarcito con la somma di sei milioni di euro per il gravissimo errore giudiziario di cui è stato vittima. Assolti anche Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, che fuggirono in Brasile prima della sentenza definitiva. Il processo di revisione ha assolto anche Giovanni Mandalà, morto in cella nel 1998. Altri sei milioni e mezzo di euro saranno versati ai suoi eredi. Dopo il risarcimento un'altra citazione verrà notificata all'Arma dei carabinieri per una richiesta di risarcimento danni di 100 milioni di euro a favore di Gulotta e degli eredi Mandalà. È la prima causa civile contro l'Arma in 200 anni di storia.