Aggressioni in ospedale, infermieri protestano: “Servono presidi fissi di poliziotti negli ospedali”
“Le immagini dell’aggressione al Policlinico Riuniti di Foggia sono terribili. Non possiamo non immedesimarci in quegli attimi di terrore. Quello che è successo grida violenza: nessuno dovrebbe mai essere esposto a un trauma di questo tipo”. Il girato dei medici trincerati in una stanza del blocco operatorio che provano a serrare la porta per evitare l'irruzione dei familiari di una 23enne deceduta durante un intervento chirurgico, è ancora fresco.
Nelle stesse corsie di ospedale, ci sono stati almeno altri due episodi di violenza sul personale ospedaliero. Ma si parla di scene in aumento come evidenziano i dati dell’Inail. “E il 70% si verificano sul personale infermieristico, per la maggior parte composto da donne”, spiega a Fanpage.it Antonio De Palma, presidente nazionale del sindacato di categoria Nursing Up.
Presidente, qual è la dimensione del fenomeno?
“Si tratta di un fenomeno in crescita, al punto che l’Italia è tra i primi posti per violenza negli ospedali come luoghi di lavoro. Non esiste una politica di prevenzione. L’anno scorso l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie ha raccolto 16 mila segnalazioni ufficiali di aggressioni. Se però aggiungiamo tutte quelle non denunciate si arriva a 130 mila, comprese le aggressioni verbali e le minacce”.
Ci sono ospedali più problematici di altri?
“Ormai il fenomeno delle aggressioni riguarda tutto il Paese, tutte le regioni. Nel 2023 la Campania è stata al primo posto per aggressioni fisiche e psicologiche con 10mila casi. La segue a ruota la Lombardia con 8.000, cifra che si ritrova anche in Puglia, Toscana e Sicilia”.
Soluzioni?
“Ristabilire presidi di polizia all’interno delle strutture che vigilino per 24 ore. In particolare, servono garanzie per i turni di notte. Inoltre, servono anche comitati costituiti sia da professionisti sanitari sia da cittadini, per far sì che si crei una maggiore sensibilità sulla questione. Come sindacato, abbiamo già chiesto la convocazione del comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza al ministero dell’Interno”.
C’è anche una proposta di legge di FdI che prevede il daspo alle cure per gli aggressori.
“È inutile. Non è una soluzione deterrente e non chiarisce la reale portata del fenomeno. Al di là del dubbio costituzionale, si tratta di un provvedimento che aggiungerebbe ulteriori problematicità. Devono tornare presidi fissi della polizia, come già c’erano ma le varie spending review hanno tagliato progressivamente”.
Quali strascichi lasciano queste aggressioni?
“Fin dal giorno successivo dell'aggressione, i professionisti sanitari rivivono quelle scene in ogni azione: dal timbrare il cartellino al bussare a una porta. La vivono in stato di prostrazione. Il nostro è un lavoro che necessita tranquillità. Comunque, noi stiamo ricevendo tantissime denunce da parte di infermieri che hanno terrore nell’attaccare il turno e non vogliono più lavorare nei pronto soccorso e nelle sale operatorie”.
Ma è un lavoro che tira ancora?
“Non direi. Dal 2010 al 2024 le iscrizioni per il test di infermieristica sono passate da 46.281 a poco più di 20 mila. Si parla di un calo di oltre il 50%. Se andassimo avanti così, tra dieci anni si parla di un abbattimento di un ulteriore 25%. Abbiamo una carenza di 175 mila unità rispetto agli standard europei”.
Quali sono i motivi?
“La complessità del percorso universitario, le migliaia ore di tirocinio, la precarietà dei contratti, i doppi turni e le lusinghe economiche da altri Paesi. Uno stipendio medio di un infermiere si aggira tra i 1.500 e 1.600 euro al mese, c’è una differenza di almeno 500 euro rispetto a quello in Francia e Olanda, per non parlare di Gran Bretagna, Svizzera, che paga sopra i 3.000 euro, e i paesi arabi che arrivano fino a 6.000 euro netti e mettono a disposizione anche politiche di welfare per la famiglia”.
Vive questa situazione con preoccupazione?
“Sì, anche perché in Italia si sta facendo largo la figura dell’assistente infermiere senza una riorganizzazione complessiva delle professionalità sanitarie. Gli infermieri sono dottori a tutti gli effetti, hanno un percorso di formazione universitaria alle spalle; gli assistenti infermieri avranno solo 6 mesi o un anno di formazione. E a subirne i danni saranno i cittadini che dovranno essere curati”.