Affetta da anoressia e rifiutata da una clinica perché troppo grave: “Mi sento una malata di serie B”
Nonostante il sole e la bella giornata primaverile, Caterina arriva in centro a Bologna con indosso piumino e felpa pesante. Ha freddo, dentro e fuori. La sua è una storia che è anche quella degli altri 3,5 milioni di italiani che soffrono di disturbi del comportamento alimentare. Un dato sottostimato, perché fermo al pre-Covid: durante la pandemia l'incidenza è aumentata del 30% per cento e oggi soffre di anoressia, bulimia o binge un adolescente su tre.
Tanti di loro non ce la fanno: ogni anno muoiono per conseguenze legate ai disturbi alimentari circa 3.000 persone, 10 al giorno.
"Ho avuto diversi traumi in passato – dice Caterina a Fanpage.it- e chi non ne ha? Ma forse per me è stato troppo. A 23 anni mi sono resa conto di stare molto male".
"Alternavo periodi di abbuffate compulsive, in cui mangiavo moli esagerate di cibo, a mesi in cui non riuscivo nemmeno a deglutire. Mi sarei messa a piangere davanti allo specchio", ricorda Caterina.
"Quando hai paura che il tuo cuore smetta di battere da un momento all'altro, l'anima pesa. E ti senti da sola. Per questo mi sono decisa a chiedere aiuto: sapevo di non potercela fare da sola".
La scelta di Caterina verge inizialmente sul privato non convenzionato, sperando di accorciare i tempi, visto che nel pubblico e nella rete di strutture private convenzionate le liste d'attesa possono durare mesi.
"Il problema – spiega – è che non avevo i soldi per curarmi privatamente, le rette sarebbero state altissime e non volevo sobbarcare i miei genitori anche di un trauma economico".
Mandata via perché "troppo grave"
Così la decisione di aspettare il ricovero in una clinica convenzionata: "Dopo aver aspettato un bel po' – dice Caterina – la degenza non è stata come me l'ero immaginata".
"Passata una settimana – spiega la ragazza – mi hanno mandata via dicendo che ero troppo grave per stare lì. Avrei dovuto recarmi io al pronto soccorso e farmi mettere il sondino nasogastrico".
L'esperienza di Caterina, nonostante sia avvenuta in un'altra clinica e in un'altra regione, ricorda quella di Ilenia, morta a 25 anni di anoressia dopo essere stata rifiutata da una struttura riabilitativa perché eccessivamente sottopeso.
La prassi di non tenere pazienti in condizioni fisiche molto compromesse è effettivamente applicata in diversi centri riabilitativi per ragioni di sicurezza, senza però che vi sia nella maggior parte dei casi un adeguato collegamento con i reparti ospedalieri per permettere a queste persone di riprendersi fisicamente e affrontare un percorso riabilitativo.
Una malata "di serie B"
Fortunatamente Caterina, una volta lasciata la clinica, cerca di non lasciarsi andare del tutto: "Fisicamente sto un po' meglio rispetto a quel periodo – dice a Fanpage.it – ma da soli non se ne esce e per me la strada è ancora lunga".
"Ora – continua – mi sto curando privatamente a casa, con costi inferiori rispetto a un ricovero, ma comunque elevati. Vorrei riprendere in mano la mia vita, ma mi sento tarpata. E, oserei dire, una malata di serie B".
Ma c'è un altro aspetto che si aggiunge ai ricordi dolorosi di questa ragazza: "Prima che me ne andassi – ricorda Caterina -, il primario della clinica mi ha chiamata ‘carcassa', proprio per identificarmi come derelitta".
"Forse – riflette – lo ha fatto per spronarmi a reagire, ma mi ha lasciata perplessa il contesto – un luogo di cura – in cui ha detto quella frase: lui, specialista, avrebbe dovuto proteggermi, non svilirmi".
"Quello che cerco – conclude – è qualcuno che si avvicini a me e mi chieda cosa voglio, come posso essere di nuovo felice. Perché alla fine è questo che vogliamo noi che non mangiamo o mangiamo troppo: essere felici e colmare il vuoto che tante persone ci hanno lasciato".