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Abortire è ancora più difficile in tempi di Covid, bisogna intervenire al più presto

L’aborto, in Italia, resta ancora una pratica che, nonostante sia “servizio essenziale” è difficile e ancora di più in tempi di Covid: ecco perché bisogna agire in fretta.
A cura di Jennifer Guerra
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Se una donna in procinto di partorire e positiva al Covid fosse respinta da un ospedale e venisse invitata a ripresentarsi solo quando negativizzata, la notizia sarebbe in prima pagina in tutti i giornali. Eppure, questo accade a chi si rivolge in ospedale per eseguire una delle procedure ginecologiche più comuni al mondo, e dai tempi altrettanto ristretti: l’interruzione di gravidanza. Secondo la legge 194/78 che regola l’aborto in Italia, esistono tempistiche molto precise e inderogabili: la gravidanza può essere interrotta volontariamente entro 90 giorni oppure entro i cinque mesi in caso di aborto per ragioni terapeutiche. Proprio per il carattere di urgenza di questa procedura, a marzo 2020 il ministero della Salute ha classificato l’interruzione volontaria di gravidanza tra le prestazioni indifferibili in ambito ginecologico durante l’emergenza Covid-19, senza eccezioni.

Eppure, sin dai primi giorni della pandemia, in molti ospedali d’Italia il servizio era stato sospeso o fortemente diminuito, come denunciato dalla mappatura di “SOS Aborto – Covid 19”, realizzata dal gruppo femminista Obiezione Respinta e da “IVG ho abortito e sto benissimo”, un progetto di divulgazione nato per combattere lo stigma sull'aborto e per supportare le donne nell’accesso al servizio. Nonostante smentite e minimizzazioni ufficiali, un calo c’è stato, come hanno confermato alcune pubblicazioni scientifiche e l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. Uno dei problemi principali era non solo la carenza di personale ma anche quella di posti letto: fino ad agosto 2020, infatti, l’Italia era rimasto l’unico Paese in Europa a prevedere un ricovero obbligatorio di tre giorni per l’aborto farmacologico. Su sollecitazione delle attiviste per i diritti delle donne e della comunità scientifica, il ministro Speranza ha cambiato le linee guida sulla somministrazione della pillola abortiva RU486, adeguandola a ciò che accadeva già in tutta Europa. È stato quindi eliminato l’obbligo di ricovero, sono stati dilatati i termini utili per la somministrazione ed è stata introdotta la possibilità di ricevere la RU486 anche nei consultori. Sin da subito, diverse regioni e amministrazioni governate dal centrodestra hanno ostacolato le nuove indicazioni ministeriali, millantando complicanze e pericoli per la salute che sono però smentiti dalla letteratura scientifica in merito.

A un anno e mezzo dall’approvazione delle nuove linee guida, stando alla relazione del Ministero che ogni anno viene inviata al parlamento, solo 14 Regioni hanno cominciato a somministrare la RU486 in ambulatorio, anche se le attiviste denunciano ancora enormi difficoltà. Proprio una settimana fa c’è stata una manifestazione in piazza Duomo a Firenze promossa da diverse associazioni per protestare contro l’inadempienza della regione Toscana, che tra l’altro era stata la prima Regione a recepire, almeno ufficialmente, le linee guida. La verità è che in moltissimi ospedali non solo non ci si è riorganizzati per rispettare le novità introdotte, ma anzi la situazione è rimasta inalterata dall’inizio della pandemia, quando il caos iniziale veniva giustificato con un’emergenza improvvisa e inaspettata. Ora però sono passati due anni, l’emergenza sanitaria è rientrata (perlomeno per quanto riguarda i posti letto e la disponibilità degli anestesisti) e il tempo per ripristinare il servizio c’è stato. Ma è cambiato poco o niente.

Oltre al problema della chiusura degli ambulatori, resta anche quello dell’eventuale positività della paziente. Come dimostrano le tante testimonianze raccolte da “IVG ho abortito e sto benissimo”, a fronte di un tampone positivo gli ospedali invitano le donne a presentarsi più avanti. Peccato che ottenere un’interruzione di gravidanza non sia esattamente la cosa più veloce al mondo, specie se si è vicine al termine previsto dalla legge. Molti ospedali, anche a causa dell’alto numero di obiettori, sono attrezzati per eseguire aborti solo pochi giorni al mese e un appuntamento saltato, con la scadenza dei 90 giorni che si avvicina, è un problema. Se a questo si somma il fatto che spesso ci si deve spostare in un’altra città o regione per interrompere la gravidanza, i tempi e i costi aumentano. Ma la circolare del ministero è chiara: l’interruzione di gravidanza non si può rimandare. Proprio per la diffusione di questa prassi, l’associazione per la salute femminile “Vita di donna” ha reso disponibile sul proprio sito una lettera da inviare alla direzione sanitaria dell’ospedale che rifiuta l’intervento e che paventa azioni legali.

La situazione che si è creata negli ultimi due anni aggrava un servizio che già presentava numerose carenze e che in molti casi da intervento di salute si trasforma in una corsa a ostacoli, tra la difficoltà di ottenere il certificato, le lunghe attese e il trattamento giudicante da parte del personale degli ospedali. È innegabile che la pandemia abbia creato numerosi disservizi e ritardi per tutte le prestazioni ambulatoriali e gli interventi chirurgici programmati, con conseguenze molto gravi per milioni di pazienti le cui condizioni possono aggravarsi. Ma l’aborto non è considerato una procedura qualunque. È ancora oggetto di tabù, giudizi e rimostranze morali, che nella pratica si aggiungono alle difficoltà oggettive di esercitare semplicemente quello che prescrive la legge. Quel “Mi dispiace signora, ma non possiamo farci niente se è positiva”, quando le regole prevedono che si debba fare qualcosa, si carica di tutti i pregiudizi che interrompere una gravidanza porta con sé.

Dopotutto, a due anni dalle nuove linee guida, in molti casi continua a essere negata la RU486 dopo i 49 giorni dall’inizio della gestazione, quando il termine è stato esteso a 90. È chiaro che manca la volontà, dei singoli ma anche la volontà politica, di impegnarsi per garantire ciò che è stato più volte definito, anche dall’Oms, “un servizio essenziale”. Associazioni femministe e ginecologhe militanti non possono sobbarcarsi la responsabilità di ricordare al personale sanitario quali regole è tenuto a seguire e nessuno dovrebbe pensare di contattare un avvocato per riuscire a ottenere una procedura medica che è consentito fare da più di quarant’anni. Quando celebriamo “il sistema sanitario migliore del mondo”, ricordiamoci anche di questo.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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