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Opinioni

A tu per tu con l’assassino: i parenti delle vittime incontrano i killer. E rinascono entrambi

I parenti delle vittime hanno incontrato, in carcere, persone che si sono rese colpevoli di atroci delitti. Si chiama Progetto Sicomoro, promosso dall’associazione Prison Fellowship, che è presente in 136 nazioni. Si tratta di uno strumento di giustizia riparativa: per alcune settimane vittime e carnefici, si incontrano, si confrontano e alla fine si aiutano reciprocamente.
A cura di Luisa Cornegliani
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“Mi ha dato la pace. Sono entrata piena di rabbia, esco libera”. Elisabetta Cipollone è una mamma che ha perso il proprio figlio in un grave incidente stradale, causato da un pirata della strada. Il suo Andrea è stato travolto e ucciso nel 2011, a soli 15 anni, mentre attraversava sulle strisce pedonali, sotto gli occhi del fratello gemello. Ha lottato perché l'uomo che l'ha assassinato fosse condannato a una pena esemplare, si è battuta per l'omicidio stradale raccogliendo firme in tutta Italia. Come può una mamma che ha perso il proprio figlio trovare la pace? Dov'è avvenuto questo processo che l'ha finalmente liberata dalla rabbia per quello che era capitato a lei e al suo Andrea?

Andrea De Nando, 15 anni, figlio di Elisabetta, ucciso nel 2011 da un pirata della strada
Andrea De Nando, 15 anni, figlio di Elisabetta, ucciso nel 2011 da un pirata della strada

Sembra incredibile, ma è in carcere che questa mamma ha trovato la serenità perduta. E l'ha aiutata un assassino. Sì, proprio così, un uomo che aveva commesso il più atroce dei delitti, prima di finire dietro le sbarre a Opera, nel Milanese, una delle più grandi prigioni europee, con la più numerosa sezione dedicata ai cosiddetti 41bis, cioè al carcere duro. Com'è possibile? E' lei stessa a spiegarlo. Dice: “E' stata un'esperienza illuminante. Non conoscevo la realtà del carcere. Sono entrata piena di pregiudizi, poi mi sono accorta che dietro a quelle persone, che si sono macchiate di crimini orribili, ci sono uomini. Mi sono resa consapevole di tante cose. Per esempio, ci sono persone che nella loro vita hanno conosciuto solo il male. Infrangere la legge per loro è stata la più naturale delle scelte, se non addirittura l'unica possibile. Mentre io facevo questa presa di coscienza, altrettanto faceva la persona che avevo davanti. Io ho cercato di fargli capire quali conseguenze ha il reato su chi lo subisce, anche indirettamente: lo choc, la paura, il dolore della perdita. Mettersi l'uno nei panni dell'altro è utilissimo. Non ho cambiato idea: credo fermamente nella certezza della pena. Chi commette un reato, grave o piccolo che sia, deve pagare il suo debito con la società, ma perché questo avvenga, il carcere si deve trasformare in un'esperienza positiva. Anche se rinchiusi, i detenuti possono fare grandi cose. L'ho visto personalmente. E quando queste persone torneranno libere, saranno davvero pronte a lasciare per sempre la vita criminale. Pensi che un detenuto, con fine pena mai, ossia che non uscirà mai di prigione, mi ha detto: “Io ora sono libero, anche se sto qua dentro. Il male che ho fatto non si cancella, ma farò qualcosa di buono da qui in avanti”.

Il carcere di Opera
Il carcere di Opera

Il progetto a cui Elisabetta Cipollone ha partecipato si chiama Progetto Sicomoro, promosso dall'associazione Prison Fellowship, che è presente in 136 nazioni. Si tratta di uno strumento di giustizia riparativa: per alcune settimane vittime e carnefici, si incontrano,  si confrontano e alla fine si aiutano reciprocamente. Non è un progetto premiale, ossia non dà sconti di pena né benefici. Il concetto è semplice, la sua realizzazione è più complicata, ma finora ha dato grandissimi risultati.

Marcella Reni, presidente dell'associazione
Marcella Reni, presidente dell'associazione

Basti pensare che ha funzionato persino con le vittime del genocidio avvenuto in Rwanda tra Hutu e Tutzi. E' una realtà istituzionale in Canada, negli Stati Uniti, dov'è nato, e in tutto il Nord Europa. Dice la presidente dell'associazione italiana Marcella Reni, 60 anni: “Facciamo incontrare due dolori, certi che dove c'è stato un mare di male possa generarsi un'onda di bene. Parlando si scopre che il dolore del carnefice è lo stesso della vittima e i cuori si uniscono. Nel 99,9 per cento dei casi non c'è stata recidiva. I detenuti, trattati con dignità a prescindere dal crimine che hanno commesso, fanno un duro lavoro di introspezione, insieme con le vittime degli stessi reati che hanno compiuto. Ne nasce un progetto di vita che risana anche la società. Quando torneranno liberi, non commetteranno più gli stessi errori”.

Lo dicono le statistiche, dal 2009, quando in Italia è nata l'associazione, a oggi. Il progetto ha dato risultati positivi soprattutto con i detenuti peggiori, quelli cioè che hanno commesso i crimini più gravi. Continua Marcella Reni: “C'è uno 0,01 per cento di carcerati che non ha finito il progetto e che una volta uscito è tornato a delinquere. Si tratta di piccoli criminali, rapinatori con alle spalle storie di droga. A Ivrea, durante l'ultimo progetto, solo un carcerato su 11 non ce l'ha fatta a proseguire: era in attesa della sentenza della Cassazione, che è stata durissima. Per lui il carico emotivo è stato eccessivo e si è fatto da parte. Al contrario collaborano stabilmente con noi killer di mafia, detenuti con fine pena mai, ergastolani. All'inizio per tutti è stata durissima. Hanno avuto un crollo emotivo, hanno dovuto ricorrere al supporto degli psicologi del carcere per farcela. Molti di loro prima non ricordavano il volto delle loro vittime, l'avevano cancellato, preferendo sentirsi a loro volta vittime del sistema, di un carcere crudele, di un giudice poco comprensivo, poi d'improvviso sono diventati consapevoli. Un killer di cosa nostra, Roberto C., mi ha raccontato di aver rammentato, grazie a noi, le ultime parole che avevano proferito molte delle sue vittime, le loro espressioni di terrore. Per lui è stato nello stesso tempo atroce e salvifico. Dopo, ha cercato i parenti delle oltre 50 persone che ha assassinato, ha provato ad avere un dialogo con loro. Ha aiutato e aiuta altri detenuti. A volte parla ai ragazzi delle scuole superiori. Insomma fa del bene, è diventato un esempio. Spesso mi dice: “La riparazione del male che ho fatto consiste proprio nel raccontare a tutti quanto fossi bestia. Vedo negli occhi di chi ascolta, la scintilla del bene e della giustizia”. Roberto C. è uno che ha sparato a un anziano del suo paese perché, quand'era piccolo, gli aveva dato schiaffo. Adulto, divenuto un sicario, si è vendicato.

Elisabetta Cipollone con il detenuto di Opera, che l'ha salvata. Dice lui: "Ci siamo salvati a vicenda".
Elisabetta Cipollone con il detenuto di Opera, che l'ha salvata. Dice lui: "Ci siamo salvati a vicenda".

Su un punto non hanno dubbi né Marcella Reni, né Elisabetta Cipollone. Perché il carcere redima, deve essere un'esperienza  formativa. Dicono in coro: “Dal male nasce solo male. Dare dignità ai detenuti, considerarli persone è la cura migliore per la nostra società”. A Natale l'associazione organizza pranzi con detenuti in dieci carceri italiane: a cucinare è uno chef stellato, a tavola ci sono proprio loro, i carcerati, a servirli sono i parenti delle vittime e a volte personaggi dello spettacolo. Conclude Elisabetta Cipollone: “Sono entrata in carcere assetata di giustizia, mi sono sentita riconosciuta nel mio bisogno proprio da chi ha commesso il reato che mi aveva portato via mio figlio. Lo so che è incredibile da credere, ma il desiderio di vendetta e il rancore si sono trasformati in liberazione e comprensione. Durante il progetto c'è un momento molto particolare: si getta una pietra in una bacinella e si osservano i cerchi concentrici che nascono dall'impatto con l'acqua. Il detenuto deve fare un disegno: per ogni cerchio deve indicare il nome delle sue vittime. Ha una settimana, perché all'inizio non sa cosa scrivere. Alla fine non gli basta un foglio”.

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