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A tre anni dalla strage di San Gennaro

Il 18 settembre del 2008 a Castel Volturno un gruppo di uomini guidato dal boss Giuseppe Setola, capo dell’ala stragista del clan dei casalesi, apriva il fuoco contro sei immigrati africani, uccidendoli: vittime innocenti, in terra di Gomorra, come accertarono le indagini.
A cura di Nadia Vitali
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Sono passati tre anni dalla drammatica serata in cui si consumò quella che venne chiamata immediatamente la strage di Castel Volturno: il 18 settembre del 2008 sei uomini perivano tragicamente sotto un diluvio di proiettili, 125 furono i bossoli ritrovati sul luogo del massacro, per mano di un commando di uomini travestiti da carabinieri, affiliati al clan dei casalesi, alla cui guida c'era Giuseppe Setola, capo dell'ala più sanguinaria.

Non era la prima volta nella storia di questo piccolo lembo di terra che si snoda tra il litorale e le enormi distese di coltivazioni, con qua e là disseminati gli spettri di strutture abbandonate da decenni, che razzismo, xenofobia e interessi camorristici, si saldavano inscindibilmente: il caporalato al servizio della camorra, del resto, rende schiavi da decenni cittadini africani giunti in Italia al seguito di un miraggio che si rivela sempre troppo tardi nella sua mera natura di illusione. E la prima manifestazione antirazzista in Italia, va ricordato, venne organizzata nel 1989 proprio in seguito all'omicidio di Jerry Masslo, rifugiato sudafricano, barbaramente ucciso a Villa Literno da una banda di criminali a cui si era rifiutato di dare i soldi ricavati da giorni di duro lavoro nei campi, a raccogliere pomodori per ottocento lire a cassetta.

Quella sera di giovedì 18 settembre, alle 19, sette uomini si trovavano nei pressi della sartoria Ob Ob Exotic Fashion per diverse ragioni; il proprietario, El Hadji Ababa, proveniente dal Togo, stava finendo di lavorare, aspettando che tramontasse il sole per poter mangiare, giacché si era in Ramadan e venne così ritrovato riverso sulla macchina da cucire; con lui c'era chi lo aiutava a lavorare, come Jeemes Alex, o chi era passato a fargli un saluto dopo essere tornato da Napoli, dove faceva il barbiere, come Christopher Adams, di 28 anni; c'era chi aspettava un amico che viveva sopra la sartoria e chi usciva di casa. Tutti, finiti nel mirino di chi voleva dimostrare la propria forza, la propria prepotenza; certo, contro i più deboli del nostro paese, ma non si stava tanto a sottilizzare, in quel caso.

Uno solo si salvò, fingendosi morto, per gli altri sei non fu possibile far nulla; la sua testimonianza fece conoscere il dettaglio secondo il quale i colpevoli, che sono stati condannati qualche mese fa, erano travestiti da carabinieri. In questi tre anni non si può certo dire che la condizione sia migliorata per i cittadini africani che vivono confinati in quella sorta di Italia parallela; come se non bastasse, l'anno scorso, il sindaco del comune di Castel Volturno, Antonio Scalzone,  non mancò di definire i sei uomini uccisi «una banda di criminali» rifiutandosi così di partecipare alle celebrazioni commemorative, ignorando deliberatamente che le indagini giudiziarie hanno accertato l'estraneità delle vittime ad eventuali traffici illeciti. Vittime innocenti di cui bisognerebbe ricordarsi più spesso, perché lì a Castel Volturno il dramma dell'emarginazione e della schiavitù si consuma ogni sera, non soltanto quando si apre il fuoco contro i primi scelti a caso.

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