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Opinioni

A te, che oggi hai vent’anni, racconto perché dovremmo ricordare Giuseppina Ghersi

Quando le atrocità ci sono state – e quella su Giuseppina Ghersi lo fu – bisogna raccontarle. Anzi ricordarle è necessario. E far finta di niente, oppure dire “non mi riguarda” sarebbe l’atteggiamento fascista di un antifascista.
A cura di Saverio Tommasi
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Care ragazze, cari ragazzi.
Voi che oggi avete vent'anni, e correte alla facoltà di Lettere di piazza Brunelleschi a Firenze, fra un caffè e un professore che fa saltare l'ennesimo appello comunicandolo la mattina con un foglio scritto a mano dall'assistente e appeso – storto – alla porta del suo ufficio.
Oppure voi, che oggi avete quindici anni e riempite di cuori un diario buttato in fondo allo zaino, pensando che non ve ne separerete mai.

Mi rivolgo a tutti voi, ma anche a quelli come me che hanno una manciata di anni in più, perché tutti noi stiamo vivendo una periodo strano: abbiamo la libertà di esprimere le nostre opinioni grazie alla democrazia, conquistata cacciando a calci nelle chiappe i nazifascisti settantatré anni fa, ma la stiamo sprecando. Anzi, spesso questa libertà viene usata, massacrata, da tutti. Dai nipotini del Duce per dire "il fascismo ha fatto cose buone". Nipotini stupidotti che per avvalorare la loro tesi prendono le poche cose fatte male da una ventina – su decine di migliaia – di partigiani per dire "e allora visto che non eravate migliori?". Non è un assurdo? Sì, lo è.
Però il tempo della democrazia, e della memoria, viene inquinato anche da un'altra parte, minoritaria ma persistente, che temendo il ritorno dei nipotini suddetti tace, o derubrica, le atrocità commesse (anche) da alcuni uomini nascosti nelle formazioni partigiane. Atrocità che rappresentano episodi isolati, certo, e osteggiati dalla stragrande maggioranza degli uomini e delle donne della Resistenza, che invece lottavano per il contrario di quelle atrocità, e vinsero.
Però episodi reali, mica inventati da Casa Pound, anche se loro li cavalcano come un adolescente guarda un giornaletto porno.

Io lo dico chiaramente: quando le atrocità ci sono state – e quella su Giuseppina Ghersi lo fu – bisogna raccontarle. Anzi ricordarle è necessario. E far finta di niente, oppure dire "non mi riguarda" sarebbe l'atteggiamento fascista di un antifascista.
Praticamente una contraddizione in termini, come quegli uomini che dicono "no alle violenza sulle donne" e poi a casa picchiano la moglie, però "solo ogni tanto, quando se lo merita".

Io Giuseppina Ghersi voglio ricordarla, e voglio ricordarla per ricordare a me stesso che i giusti stavano sì da una parte sola, ma che alcune ingiustizie sono state compiute anche da alcuni ingiusti che si erano mescolati ai giusti.
E ricordarlo serve per onorare una memoria, ma soprattutto per dire: in guardia, ragazzi e ragazze di oggi. Pensate sempre con la vostra testa, non vi fate ingabbiare, omologare, incasellare, classificare, ridurre, irreggimentare. Non lo permettete a nessuno, neanche a me, se un giorno mai ci provassi. Scegliete la libertà, sempre, scegliete quello stesso profumo che i nazifascisti negarono per ideale di formazione, scegliete quella stessa libertà che fu negata da tre partigiani a Giuseppina Ghersi, una bambina di tredici anni, a guerra finita.

E ora facciamo un passo indietro.
A me piacciono le ciliegie, il profumo del pane alle sei del mattino, e prendere il tempo ai cavalloni del mare per farmi trascinare a riva.
A me repelle l'idea di mangiare uno scarafaggio vivo, l'equiparazione fra fascismo e Resistenza e quello che tre partigiani fecero a Giuseppina Ghersi.

E ora facciamo un altro passo indietro.
Siamo nel 1945, pochi giorni dopo la fine della dittatura fascista, cioè quella in cui non si poteva votare, quella in cui la povera gente mangiava il poco inzuppato al quasi nulla, e la bocca poteva
aprirla solo per parlare del tempo o lodare il tizio con il mento all'insù. Lo stesso tizio che con i suoi camerati portò l'Italia in guerra, firmò le leggi razziali e fu l'alleato di Hitler fino a che a mister mento all'insù non prese il cagotto e abbandonò moglie e figli fuggendo travestito da soldato tedesco sotto una panca del camion n. 34 della colonna tedesca, dove fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri e arrestato.
Questa, in poche e insufficienti righe, è stata la Storia.
L'Italia non fu liberata da un meteorite, da un rutto o da un miracolo. L'Italia tornò libera grazie ai partigiani, alle partigiane e alle truppe alleata anglo americane. Partigiani e anglo americani agirono prevalentemente per conto proprio, ogni tanto si pestarono i piedi, ma insieme liberarono l'Italia. I partigiani da soli, probabilmente, non ce l'avrebbero fatta. Sicuramente non in tempi così brevi. Gli americani da soli, senza la conoscenza del territorio, e l'attivismo civile e partigiano che sfiancò i nazifascisti, neppure. Magari sarebbe finita come in Iraq, e oggi saremmo ancora sotto due paure.

Per questo equiparare fascismo e Resistenza sarebbe come paragonare la merda con il cioccolato, anche se guardando cento grammi di merda e cento grammi di cioccolato fondente, da trenta metri di distanza, entrambe sotto un vassoio, la differenza non sarebbe facile da cogliere. Bisogna aver studiato e aver amato, per capire la differenza senza bisogno dell'assaggio. Però è uno sforzo necessario, altrimenti finisce che un giorno ti obbligano a ingoiare la merda (o l'olio di ricino) e mentre lo fai devi esultare, e se non lo fai ti ammazzano. Insomma, si finisce in dittatura. Però non è detto che tutti quelli che lottano contro la dittatura siano dei santi e dei partigiani. Magari qualcuno lotta contro quella dittatura perché non è riuscito a ricoprire un posto di comando, e allora lotta contro per mettere una dittatura tutta sua.
In altre parole: non sempre lottare contro qualcosa di orribile significa essere nel giusto, anzi, sono proprio i mezzi con cui lotti che creano la differenza qualitativa tra l'errato e il corretto. Non è vero che "il fine giustifica i mezzi", non lo diceva neanche Machiavelli, se pure il pensiero gli viene sempre attribuito.

Giuseppina Ghersi aveva tredici anni, anzi 13. Che se lo vedi per numero fa più effetto, perché è come lo scrivono i bambini, e Giuseppina Ghersi era una bambina. La storia che racconto è quella che ha raccontato suo padre, a cui non c'è stato mai motivo per non credere.
Giuseppina fu prelevata da tre partigiani. Le fecero delle scritte sulla faccia. Fu rapata a zero. Fu riempita di botte, picchiata e seviziata. Se la passarono a calci, giocando con lei come con un pallone, fino a ridurla in coma. Lo fecero davanti al suo babbo e alla sua mamma. Poi le spararono alla nuca e gettarono il suo corpo davanti al cimitero di Zinola.
Giuseppina aveva vinto un concorso a tema ricevendo una lettera di encomio di Benito Mussolini. Giuseppina Ghersi era una bambina.

Io penso che ricordarla sia un atto di resistenza contro chi vorrebbe ridurre questa storia al silenzio, o cavalcare la memoria di una bambina per equiparare le colpe di una stagione.

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Sono giornalista e video reporter. Realizzo reportage e documentari in forma breve, in Italia e all'estero. Scrivo libri, quando capita. Il più recente è "Siate ribelli. Praticate gentilezza". Ho sposato Fanpage.it, ed è un matrimonio felice. Racconto storie di umanità varia, mi piace incrociare le fragilità umane, senza pietismo e ribaltando il tavolo degli stereotipi. Per farlo uso le parole e le immagini. Mi nutro di video e respiro. Tutti i miei video li trovate sul canale Youmedia personale.
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