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Opinioni

A cosa dovremo rinunciare per vivere in un mondo a zero emissioni

Rinunciare alla carne, alle vacanze o all’aria condizionata? No, spiacenti: il mondo che ha sconfitto il cambiamento climatico non sarà un nuovo Medioevo.
A cura di Fabio Deotto
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Se dovessimo dare retta a quanto siglato nel patto di Glasgow lo scorso 13 novembre, allora “attorno alla metà del secolo” dovremo imparare a vivere in un mondo a emissioni nette zero, ossia in un mondo in cui le nostre attività emettono una quantità di gas serra inferiore a quella che il pianeta è in grado di assorbire.

È una prospettiva che occupa da tempo il discorso climatico, e spesso si porta dietro una domanda abbastanza tendenziosa: A cosa dovremo rinunciare del nostro stile di vita per vivere in relativa armonia con il nostro ambiente?

Le risposte a un interrogativo di questo tipo a volte tracciano un orizzonte desolante: consumi ridotti all'osso, case bollenti d'estate e ghiacciate d'inverno, niente più vacanze, dieta vegana imposta a tutti, giornate scandite da limiti e proibizioni, scenari da tarda Unione Sovietica estesi a paradigma, ci mancano solo le code strategiche fuori dai negozi di alimentari.

Spesso e volentieri, però, questi scenari sono il frutto di una narrazione tanto falsata quanto strumentale, inoculata nel discorso comune fin dagli anni ‘80, quando le lobby del petrolio e del carbone hanno cominciato a mettere in circolo l’idea per cui sì, le emissioni serra stavano riscaldando il mondo, ma la colpa era dei singoli consumatori, e non di chi si arricchiva fornendo loro prodotti poco sostenibili investendo su un sistema ancora meno sostenibile.

Per avere una possibilità di centrare l’obiettivo fissato (a parole) a Glasgow, la quantità di emissioni serra dovrà assestarsi su una media di 2,3 tonnellate pro capite entro il 2030. Oggi, in media, l’Italia produce 5 tonnellate di CO2 equivalente per ogni cittadino. Ma calibrare le emissioni sui singoli consumatori, l’abbiamo detto, rischia di essere fuorviante, anche perché i consumi personali coprono solo il 30% delle emissioni totali. Non solo, esiste una minuscola fetta della popolazione mondiale (il famoso 1%) i cui consumi incidono per il 16% sulle emissioni totali, e si avviano a sfondare quota 70 tonnellate all’anno di gas serra pro capite. Se a questo aggiungiamo che il 15% delle emissioni globali deriva dalle attività di estrazione e raffinazione dei combustibili fossili, diventa un po’ più chiaro chi sarà, in uno scenario come quello auspicato, dover fare le vere rinunce.

E diventa anche più chiaro che la vita delle persone comuni, nei paesi industrializzati, è destinata sì a cambiare, ma non tanto quanto ci venga ormai automatico temere.

Le nostre case

Per prima cosa dobbiamo tenere presente che, anche se riuscissimo a mantenere l’aumento delle temperature globali al di sotto degli 1,5 gradi, ci troveremmo comunque in un mondo più caldo, e questo riscaldamento non sarà distribuito in maniera uniforme. Le città, insomma, diventeranno ancora più calde e diventerà sempre più difficile tenere fresche le nostre abitazioni. Migliorare l’isolamento termico degli edifici non basterà, è probabile che sarà necessario sfruttare sistemi domotici che controlleranno l’aerazione, attiveranno automaticamente scuri e tapparelle in alcune ore del giorno e impiegheranno climatizzatori intelligenti che sfruttino l’aria condizionata solo in condizioni particolari, così da ottimizzare l’efficienza termica.

Una casa simile dovrà essere completamente elettrificata, fornelli e boiler compresi. Diremo addio al gas, dunque, e le cucine a induzione diventeranno la norma. Un maggiore utilizzo di energia elettrica richiederà un approvvigionamento controllato, principalmente da fonti rinnovabili, con prezzi dell’energia che potrebbero variare a seconda del tempo atmosferico (e della disponibilità di pannelli solari installati sull’edificio). In attesa che l’attenzione agli sprechi diventi un fatto culturale, saranno probabilmente disposti display che mostrino i consumi di acqua e energia elettrica, per i quali saranno fissati limiti (ragionevoli) oltre i quali si potrebbero avere ulteriori ricadute sulla bolletta. Sempre per evitare gli sprechi, le abitazioni saranno dotate di pompe di calore per produrre acqua calda sfruttando l’energia termica proveniente dall’esterno o dal suolo terrestre, riducendo dunque sprechi ed emissioni.

Infine, le case produrranno molti meno rifiuti, soprattutto per quanto riguarda la plastica. E questo anche per il modo diverso con cui tratteremo il cibo.

Il cibo che mangiamo

Chi dipinge scenari di transizione ecologica distopici di solito si affretta a specificare che non potremo più mangiare carne. Il che è del tutto inverosimile. Quello che accadrà è che ridurremo il consumo di carne, in particolare carne rossa, e in particolare quella provenienti da allevamenti intensivi. E non sarà questo grande problema, basti pensare che il consumo di carne nel mondo sta già diminuendo, e non solo per ragioni ambientali, ma anche e soprattutto salutistiche. Il Climate Change Committee calcola che, per metterci sui giusti binari, di qui al 2030 il nostro consumo di carne dovrà ridursi di almeno un quinto, non esattamente un taglio proibitivo. 

È probabile che la carne si avvii a diventare uno sfizio, qualcosa che ci si concede in occasioni particolari; nei supermercati la quota di carne coltivata e di origine vegetale aumenterà, come aumenteranno in generale i prodotti a base vegetale. E anche in questo caso sarà necessario un cambiamento innanzitutto culturale: aumenterà la proporzione di carne bianca nella nostra dieta, aumenterà la quantità di frutta, verdura e legumi, ma al contempo emergeranno nei nostri menù ricette a base vegetale.

È presto per dire se davvero, come prospettano alcuni, cominceremo a introdurre insetti nelle nostre diete. Quel che è sicuro è che aumenterà la quota di verdura prodotta con sistemi di permacultura o di agricoltura rigenerativa. Non solo, il modo in cui confezioniamo e trasportiamo gli alimenti sarà incentrato su obiettivi di minimizzazione di sprechi e consumi. Significa che compreremo più alimenti sfusi, ma anche che privilegeremo quelli prodotti a poca distanza da casa.

Già oggi stiamo cominciando a vedere comparire ortaggi prodotti negli stabilimenti di agricoltura indoor, che per certi versi garantiscono una migliore resa, con consumo di acqua, suolo e pesticidi ridotto al minimo, oltre a permettere di produrre alcune verdure entro i perimetri cittadini.

Il nostro modo di spostarci

In questo momento, il settore dei trasporti è la maggiore fonte di emissioni su scala globale. È dunque ragionevole aspettarsi che i cambiamenti più significativi si vedranno su questo fronte. Le auto diventeranno via via elettriche, e le città si riempiranno di torrette di rifornimento, questo è piuttosto ovvio. Quello che è meno ovvio è che tutto ciò, sicuramente, non basterà. Un cambio di paradigma come quello che potrebbe portarci a soddisfare i parametri vagheggiati a Glasgow ci porterà anche a rapportarci in maniera diversa agli spostamenti, oltre che al concetto stesso di viaggio.

Innanzitutto, ridurremo il numero di veicoli privati in circolazione. Per farlo avremo bisogno di potenziare i trasporti pubblici, incentivare lo sviluppo ferroviario locale, creare delle arterie ciclabili ampie e percorribili in sicurezza, lasciando sempre meno spazio alle automobili (come del resto avviene già da tempo in città come Copenaghen). Ma sarà anche necessario ridurre la necessità di spostamenti a lunga distanza, e dunque il pendolarismo. Per forza di cose, nell’equazione rientrerà una maggiore quota di smart-working.

I voli aerei non scompariranno, nel caso qualcuno avesse questo timore. Semplicemente non sarà più possibile trovare un aereo Milano-Barcellona a un costo inferiore a quello di un treno Milano-Roma. Un recente studio condotto da un team dell’Università di Oxford ha rivelato che sarebbe sufficiente ridurre la quantità di voli del 2,5% ogni anno, di qui al 2050, per mantenere l’impatto del traffico aereo sotto i livelli di allarme. Questo significherebbe dimezzare nei prossimi trent’anni il numero di viaggi aerei rispetto ai livelli del 2019, e considerando che già oggi alcuni paesi stanno tagliando i voli interni per i quali esiste una tratta ferroviaria, non si tratta di un obiettivo così irraggiungibile.

Il nostro modo di vivere in città

Una città con meno veicoli sarà una città visibilmente diversa da come siamo abituati a concepirla. Basta darsi un’occhiata attorno per rendersi conto di come spesso le città siano più costruite a misura di automobili, che a misura d’uomo; auspicabilmente, anche questo cambierà di qui a metà secolo. Una strada senza veicoli, innanzitutto, avrà bisogno di meno strade asfaltate, il che si tradurrà in una presenza maggiore di spazi verdi, piste ciclabili e spazi pedonali. Sarà un bene non solo per chi ama vivere la città al di fuori di un abitacolo, ma anche chi non ama fare passeggiate al parco: l’asfalto è infatti il primo responsabile dell’effetto “isola di calore”, che fa sì che le città intrappolino energia termica assestandosi su temperature a volte anche di 6 gradi superiori alle campagne circostanti.

Ma ridurre i veicoli privati significherà anche ridurre l’inquinamento atmosferico, oltre che quello acustico: vivremo quindi in città meno rumorose e più respirabili. E soprattutto, vivremo in modo diverso la città: la presenza di corridoi verdi interconnessi consentirà di fare lunghe passeggiate alberate, a volte attraversando l’intera città. La quantità di pendolari diminuirà necessariamente, per l’aumento dello smart-working e per la riduzione degli spostamenti in auto su lunga distanza, ma aumenterà probabilmente il numero di persone per strada, questo perché, nell’ottica di una riduzione dei consumi e di un cambio di paradigma economico non più votato unicamente alla crescita, dedicheremo meno tempo al lavoro.

Una città simile sarà molto più connessa, sia dal punto di vista dei corridoi naturali, sia dal punto di vista delle interazioni tra persone, sia dal punto di vista digitale: per ottimizzare il funzionamento dell’organismo cittadino sarà necessario disporre una rete di sensori che permetta di automatizzare alcune procedure, ad esempio quelle relative alla ventilazione, all’approvvigionamento energetico, allo smaltimento e riciclo dei rifiuti, e ai trasporti.

Dal punto di vista architettonico sarà una città molto più varia rispetto a quella attuale. Agli edifici già esistenti (che andranno tutti riqualificati e recuperati), si aggiungeranno nuovi tipi di costruzione, dai palazzi in legno (anche noti come plyscraper), ai palazzi “spugna”, studiati in modo da recuperare il 70% dell’acqua piovana, e poi ancora edifici costruiti con materiali biologici attivi (funghi compresi) e materiali di recupero (come plastica e rifiuti), e via dicendo.

Anche in uno scenario ottimistico come questo, tuttavia, il problema del caldo rimarrà, ragion per cui nelle città verranno predisposti sempre più spazi pubblici rinfrescati per consentire alle persone di riposarsi durante le ore più calde.

Infine, con l’aumento degli spazi verdi e della loro interconnessione, aumenterà anche il numero di animali urbani, anche se probabilmente non ce ne renderemo conto subito, dato che la maggior parte tenderà a rimanere negli spazi verdi. Ci sono però animali che si stanno adattando sempre di più all’ambiente urbano, come gli uccelli e le lucertole, è quindi ragionevole immaginare che saranno una componente sempre più visibile del paesaggio cittadino.

Il nostro territorio

Ma l’abbiamo detto, i cambiamenti necessari a decarbonizzare un intero sistema interesseranno ogni distretto della nostra vita. Questo significa che vedremo il territorio mutare anche al di fuori delle città. Sorvolando un’area come la Pianura Padana, ad esempio, un drone ci mostrerebbe meno campi coltivati rispetto ad adesso, o comunque saremmo meno in grado di distinguerli, e questo perché per ridurre la degradazione del suolo avremo rinunciato alle monoculture per privilegiare coltivazioni mescolate. Si vedrebbero più alberi, ma anche in questo caso non si tratterebbe di foreste ordinate con una specie dominante: sappiamo che molti alberi crescono meglio (e dunque assorbono più CO2) quando condividono il terreno con altre specie vegetali, l’opera di riforestazione avrà dunque seguito parametri di ricostruzione e conservazione della biodiversità.

Quel drone ci mostrerà probabilmente anche più zone umide, in particolare torbiere (un tipo di ambiente fondamentale per la cattura di carbonio dall’atmosfera), ma anche più pale eoliche, più pannelli solari, e, se vogliamo dare retta agli ottimisti tecnologici, anche enormi impianti per la cattura il sequestro di carbonio. Ma forse, la cosa che più ci balzerà all’occhio, sarà una quantità nettamente maggiore di tralicci per l’elettricità: un mondo decarbonizzato, per come lo possiamo immaginare ora, sarà necessariamente un mondo molto più elettrificato di questo.

Post scriptum: una puntualizzazione fondamentale

Se alcuni passaggi di questa panoramica vi sono sembrati fin troppo rosei, è perché quanto ho tratteggiato è frutto di una speculazione ottimistica, che immagina cosa accadrebbe se prendessimo davvero le misure necessarie a favorire una transizione energetica rapida ed equa. Per come stanno andando le cose, considerando i chiari di luna di Glasgow, stiamo andando in tutt’altra direzione. È però importante non abbandonarsi alla rassegnazione e continuare a ribadire quanto tutto quello che abbiamo visto sia possibile e a portata di mano.

Ma c’è un’altra considerazione da fare, ed è una considerazione cruciale: se questo scenario ideale è alla portata di gran parte dei paesi industrializzati è soprattutto per via di una disponibilità economica e infrastrutturale che affonda le radici in secoli di colonialismo (come ho spiegato nel mio scorso pezzo). Se per noi è relativamente facile immaginare un futuro di questo tipo, per le nazioni del sud del mondo, allo stato attuale, è praticamente impossibile.

Per questo, mentre ci alleniamo a immaginare un mondo diverso da questo, dobbiamo tenere a mente che prima di apparecchiarci il futuro che ci sembra più roseo, dovremo prima preoccuparci di bilanciare gli effetti di secoli passati a far crescere le nostre economie a spese altrui.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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