6 settembre 1941: il marchio dell’infamia nazista
È sempre difficile affrontare il tema della Shoa. Ogni volta che si prova a raccontare l’orrore dei nazisti si rimane sbalorditi dalla “banalità del male” di una macchina organizzativa manicale che è stata il più efficiente strumento di morte del Novecento.
Oggi, anche in virtù di alcune leggi approvate dai parlamenti europei, è reato negare la soluzione finale del III Reich, ovvero la scientifica eliminazione di tutti i cittadini di religione ebraica, senza nessuna distinzione di nazionalità, età e genere. Tutti devvono essere marchiati e destinati ai campi di concentramento per essere sfruttati fino alla consunzione prima dell’eliminazione e la sostituzione con nuove risorse fresche. Bestiame, puro bestiame.
Nella massa dei deportati ci sono uomini, donne, anziani e bambini. Tutti sono etichettati con la Stella di David, di colore giallo recante la scritta jude (giudeo in tedesco), introdotta nel 1939 dopo l’invasione della Polonia per identificare gli ebrei internati nei ghetti. Dal 6 settembre 1941 l’obbligo è esteso nelle zone occupate dalla Germania a tutti i cittadini di religione ebraica al di sopra dei 6 anni. Centinaia di migliaia di fanciulli sono immatricolati come vitelli da mandare al macello.
Il capitolo dei bambini destinati all’Olocausto è sicuramente il più penoso da ricordare. In occasione della “Giornata della memoria” del 2015 scrissi un articolo sul piccolo Sergio De Simone; le mani tremavano sui tasti mentre provavo a ricostruire le sua morte e quella dei suoi innocenti compagni di sventura. Avevo e ho davanti agli occhi le immagini di film come “Il bambino con il pigiama a Righe” (2008), “La vita è bella” (1999) “Corri ragazzo corri” (2013) che narrano la fine dell’innocenza di una generazione stravolta dall’immane tragedia.
In pochi sanno che la percentuale di bambini catturati e deportati dall’Italia è, in proporzione alla popolazione ebraica, sensibilmente maggiore rispetto alle cifre di altri Paesi dell’Europa occidentale quali la Francia e il Belgio. In Italia la popolazione infantile deportata è pari al 21,5% della popolazione ebraica complessiva; in Francia la percentuale scende al 14,2% e in Belgio al 12,3%. I bambini e gli adolescenti italiani sopravvissuti sono 280 e costituiscono il 19,3% dei sopravvissuti tra i deportati ebrei italiani.
Gli innocenti, una volta giunti nei lager, vivono una situazione transitoria, come ha ricordato Primo Levi: «I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze, o direttamente alle camere a gas». La categoria dei Kinder non è prevista all’interno dell’organigramma concentrazionario nazista: i bambini non hanno diritto ad esistere perché da un lato rappresentano il futuro e la speranza di un popolo destinato a scomparire, dall’altro non sono in grado di sostenere i ritmi di lavorazione. Pertanto hanno scarsissime possibilità di sopravvivenza.
Molte madri, pur di non separarsi dai figli, accettano di accompagnarli verso la fine, altre, invece, si salvano affidandoli, ignare, a chi si offre di custodirli provvisoriamente, nella speranza di ritrovarli all’interno del lager. Altre ancora, intuendo la segnata sorte dei bambini, li abbandonano al loro destino. Un gesto che oggi apparirebbe quantomeno disumano, ma che per le condizioni date si inserisce nella mutazione bestiale determinata dalla persecuzione che esalta l’istinto di sopravvivenza individuale contro tutte le convezioni sociali dell’umanità (come la maternità) conquistate in secoli di civilizzazione. Una volta immessi nei campi, i bambini subiscono le medesime privazioni degli adulti, ma il prezzo da pagare è alto: si aggirano inermi in un luogo dove la loro presenza non è contemplata e devono combattere con gli adulti, più forti e resistenti, per aumentare la loro flebile speranza di vita.
Come ricorda Liliana Segre: «Imparai in fretta che cosa voleva dire Lager. Voleva dire morte-fame-freddo-botte-punizioni; voleva dire schiavitù, voleva dire umiliazioni-torture-esperimenti». Solitamente i bambini sono uccisi all’arrivo, ma nei campi di lavoro/sterminio, come Auschwitz-Birkenau, quelli che appaiono più grandi della loro età o quelli che mentono per essere inclusi tra gli adulti riescono a salvarsi inserendosi nel gruppo degli idonei al lavoro. Qualcuno intuisce che è meglio dichiararsi più grandi, altri vengono avvertiti dai prigionieri prima delle selezioni o da qualche veterano con cui hanno il tempo di scambiare poche parole, appena scesi dai vagoni.
Nei campi di solo sterminio i bambini non hanno alcuna possibilità di sopravvivenza, visto che tutti gli ebrei radunati sono immediatamente terminati ad eccezione degli ausiliari del Sonderkommando: prigionieri addetti alla raccolta dei vestiti e dei beni delle vittime, allo smistamento dei cadaveri provenienti dalle camere a gas e al funzionamento dei forni crematori. Gli innocenti sopravvissuti sono una specie di “errore” di default all’interno della complessa macchina organizzativa approntata per la “soluzione finale”.
Nei campi di lavoro in Germania, sebbene rimangano esigue, le possibilità di sopravvivenza aumentano: i bambini possono rientrare nei drappelli di lavoratori oppure sono tenuti in vita per crudeli esperimenti empirici relativi ad assurde teorie medico/scientifiche. Le piccole cavie umane per lo più muoiono ma, se gli esperimenti condotti sui loro corpi non sono prolungati e mortali e se le circostanze impediscono agli aguzzini di avere il tempo per sopprimerli, qualcuno resiste sino alla liberazione.
I bambini perdono l’innocenza dell’infanzia cadendo in una forma di schiavitù che li accomuna agli adulti, con la differenza di essere creature estremamente più deboli e indifese di fronte al lavoro massacrante dei campi, alla violenza dei carcerieri, alla fame individuale e alle malattie collettive. Pur di sopravvivere, come chiunque all’interno del lager, concentrano tutti gli sforzi sul quotidiano diventando degli automi che non sono più in grado di reagire emotivamente agli eventi. «L’obiettivo dei tedeschi era ridurci a non persone e ci sono riusciti benissimo. Non avevamo più neanche i nostri pensieri». L’unica via per sentirsi vivi era rimanere in vita nonostante la sporcizia, la denutrizione, il freddo, le umiliazioni e le punizioni gratuite.
Tra i sopravvissuti il momento della liberazione segna la conclusione del racconto. Il dopoguerra si presenta nei loro ricordi come un momento confuso in cui si soffre «il disagio del rientro», connesso al rientro nella casa da cui sono stati cacciati e alla normalità da cui sono stati strappati. Una reticenza innescata dal ritorno: è solo in questo momento che si prende coscienza della ferita subita; si contano i morti, amici e parenti, e per la prima volta sono costretti a confrontarsi con la reale portata dello sterminio ebraico: del resto durante la prigionia non si avevano informazioni sul numero di vittime e in ogni caso ognuno era rinchiuso in se stesso costruendo una barriera psichica e di resistenza morale i cui pilastri erano sostenuti dal pensiero di rivedere i propri cari.
Ma, una volta a casa, l’accoglienza ricevuta da chi è rimasto è l’indifferenza se non addirittura l’aperta ostilità. Il senso di colpa spinge a considerare i superstiti come figure fastidiose che impediscono, con la loro presenza, di dare libero corso al desiderio generale di dimenticare, di lasciare i rancori e i lutti alle spalle. Gli stessi parenti che accolgono i piccoli sopravvissuti non sanno come comunicare con loro e lenire le sofferenze della persecuzione; così il ritorno dei bambini più che un’occasione di rinascita diventa un problema da fronteggiare insieme alle numerose esigenze di povertà materiale.
Questa è una storia che non dobbiamo dimenticare, è una storia che non si può negare per onorare la memoria di tanti fanciulli con la stella gialla diventati, a migliaia, cenere trasportata dal vento.