50 anni fa il Piano Solo uccideva la speranza riformista
Cinquant’anni fa “L’Unità” titolava «I quattro sull’orlo della rottura per il ricatto doroteo». Chi non conosce quel frangente storico può pensare di trovarsi di fronte ad un’affermazione senza senso: i quattro? I dorotei? E perché si parla di ricatto?
I quattro sono i partititi della maggioranza (Dc, Psi, Psdi, Pri) che hanno dato vita al centro-sinistra organico (ovvero l’ingresso del Partito socialista nel Governo); i dorotei sono gli esponenti della corrente maggioritaria e conservatrice della Dc che esprime il Presidente della Repubblica, Antonio Segni. Il ricatto scaturisce dalla scelta irrituale del Capo dello Stato di convocare il 15 luglio 1964, durante la crisi di Governo, il capo del Sifar (i servizi segreti militari), il generale Giovanni De Lorenzo.
Andiamo con ordine. Il governo nato il 4 dicembre 1963, guidato da Aldo Moro, nasce con l’obiettivo di aggiustare le storture provocate dalla “Grande trasformazione” del Miracolo economico con una programmazione economica attuata attraverso riforme strutturali, nel senso che avrebbero dovuto ristrutturare gli assetti dell’apparato statale e, quindi, modificare i rapporti esistenti tra politica ed economia e tra cittadini e Governo.
Un primo efficace esempio della direttrice di marcia intrapresa era stata la nazionalizzazione delle imprese produttrici e distributrici dell’energia elettrica con la costituzione dell’Enel (Ente nazionale per l’energia elettrica).
I dorotei, che dominavano la Dc, si oppongono alla programmazione sfruttando a loro vantaggio la negativa congiuntura economica (nel 1964, per la prima volta dalla metà degli anni Cinquanta, lo sviluppo industriale rallenta): si reclama a gran voce la necessità di risolvere i problemi congiunturali senza attardarsi all’inseguimento di astruse riforme.
Aldo Moro, per tenere insieme socialisti e dorotei, vara “la politica dei due tempi”: mantiene l’orizzonte della programmazione dando priorità alla stabilizzazione economica. Tuttavia, l’opera di equilibrismo del Presidente del Consiglio è messa in discussione da una lettera di Emilio Colombo. La missiva, nata come nota riservata del ministro del Tesoro, è resa pubblica nel maggio 1964 sul quotidiano «Il Messaggero».
Cosa c’è scritto nel documento? L’esponente del governo avverte il Premier che in quell’anno, ad una contestuale diminuzione del reddito, ci sarebbe stato un incremento dei salari aumentando il deficit della bilancia dei pagamenti e aggravando il processo inflazionistico. Per evitare il collasso si consiglia di consolidare la situazione economica, anche in mancanza della collaborazione dei sindacati, tramite restrizioni creditizie e provvedimenti fiscali, senza riguardo ai pericoli di deflazione e disoccupazione. Infine, si punta il dito contro la programmazione: di fronte al «pericolo mortale che corre non soltanto l’economia, ma anche la democrazia, si insiste in una politica di riforme di struttura che nessuno sa bene cosa siano; si insiste nel progetto di ordinamento regionale; si insiste su una legge urbanistica che prima ancora di vedere la luce ha paralizzato l’industria edilizia».
Perché Colombo sceglie la via dello scandalo? Il primo motivo è sicuramente attaccare i socialisti per depotenziarne l’azione di governo; il secondo è costringere Moro ad adottare un atteggiamento risoluto, rinunciando alle esitazioni e ai tentennamenti nei confronti del Psi.
La lettera di Colombo rappresenta le istanze di una coalizione di poteri forti: la Presidenza della Repubblica, la Banca d’Italia, il mondo finanziario e la Cee. Quest’ultima, durante il consiglio dei ministri della Comunità (aprile 1964) ha caldamente raccomandato all’Italia di proseguire nella politica deflattiva. Sebbene la Cee drammatizzi i toni (con una lettera al governo italiano in cui si dichiara che il deficit della bilancia dei pagamenti potrebbe compromettere il Mercato comune) non v’è dubbio che, a loro volta, le forze contrarie alla programmazione si avvalgano del grido d’allarme per sconfiggere i riformatori. In verità, è la stessa coalizione moderata ad aver fatto pressioni affinché la Comunità facesse pesare la sua autorevole posizione. Dal che possiamo rilevare che è pratica assai consolidata l’utilizzo strumentale del vincolo europeo per imporre scelte economiche di compressione dei consumi per contrastare il deficit italiano.
Il risultato sarà la fine della stagione riformista. Anzi, se rileggiamo con attenzione il brano della lettera di Colombo («pericolo mortale che corre non soltanto l’economia, ma anche la democrazia»), si può notare un’esplicita minaccia alla tenuta democratica, la qual cosa ci induce a pensare che il Piano Solo del generale De Lorenzo fosse solo la punta di un iceberg spinto, da correnti sotterranee, contro ogni tentativo di riforma capace di alterare gli equilibri consolidati tra Stato, politica ed economia.
Quando Segni convoca il generale al Quirinale la minaccia del golpe diventa reale. Pietro Nenni, capo della delegazione socialista, parlerà esplicitamente di «tintinnar di sciabole», preoccupato dal possibile sbocco reazionario della crisi di Governo. I socialisti, dopo una tragica spaccatura interna, calano la testa e consegnano la vittoria ai moderati.
Con il secondo governo Moro (22 luglio 1964) non solo viene allontanato il socialista Antonio Giolitti, ministro del Bilancio “maniaco” della programmazione, ma scompare dal programma ogni riferimento alla riforma urbanistica. Moro, durante i giorni della crisi governativa, è chiaro su questo punto con Nenni: il Presidente Segni non avrebbe mai firmato una legge che prevede l’esproprio generalizzato dei suoli urbani.
Il ministro dei Lavori pubblici, il democristiano Fiorentino Sullo (cattolico progressista), ha predisposto, infatti, una riforma atta a spezzare gli affari di migliaia di speculatori che lucrano sulla fame di case attraverso una consolidata pratica di corruzione tra gli esponenti del potere amministrativo, i proprietari fondiari e i costruttori (le tre figure sono molto spesso incorporate in un’unica persona). Bloccare la speculazione edilizia vuol dire rompere la catena del consenso della crescente categoria dei proprietari immobiliari.
I carabinieri, fedeli nei secoli, sono pronti ad intervenire nel caso i socialisti non accettino di annacquare la programmazione e di glissare sulla riforma urbanistica. De Lorenzo e i suoi, su diretto mandato del Presidente della Repubblica, avrebbero dovuto occupare le prefetture, rimuovere i prefetti disobbedenti, prendere il controllo delle telecomunicazioni e deportare in Sardegna tutti gli oppositori politici di maggior rilievo, consegnando il Paese ad una coalizione di interessi occulti ben radicata nei gangli della Repubblica.