16.58. Un boato avvolge la città. Le persone scappano, il fumo si leva alto. La città è in silenzio. Era già successo, cinquantasette giorni prima, su di un’autostrada.
16.58 Su Palermo cala il silenzio assordante delle sirene. Un cratere, una 126 con cento chili di tritolo.
Gli uomini della scorta non hanno il tempo di fare nulla se non l’unico gesto al quale erano addestrati: si buttano sul giudice. Il loro corpi lo proteggono per l’ultima volta.
I loro resti furono trovati anche a centinaia di metri di distanza. Il corpo del giudice no. Era lì, integro, sulla sua terra. La sua terra stabat mater dolorosa.
Nell’attentato gli agenti Agostino Catalano (caposcorta), Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, sono morti facendo il loro dovere. A volte, a torto, sono chiamati i ragazzi della scorta, sebbene giovani, loro ragazzi non lo furono mai.
Erano uomini e donna di Sicilia, uomini e donne di Palermo che difendevano la città, perché il Giudice era Palermo in quegli anni.
Il giudice Borsellino sapeva del carico di tritolo arrivato apposta per lui. Quei cento chili portavano il suo nome e cognome. "Devo far presto", ripeteva. Non c’era tempo. Morto Giovanni Falcone sapeva di aver perso il suo scudo, il suo fratello, il suo amico.
Paolo Borsellino doveva far presto perché l’intreccio mafia-politica non perdona.
Paolo Borsellino rientrava sempre tardi da lavoro, il Palazzo di Giustizia di Palermo era la sua casa e la sua tomba. I passi svelti dei faccendieri, gli sguardi degli avvocati, il freddo dei marmi. Paolo era un uomo solo. Era stato lasciato solo. Sul fronte meridionale chi rimane solo è meno di uno.
Paolo Borsellino è solo e alla biblioteca di Palermo, il 25 Giugno, pronuncia il suo ultimo discorso pubblico, un attacco all’intreccio mafia politica: al sistema che aveva allontanato Falcone dal fronte.
“Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione del tribunale di Palermo (del giudice Antonino Caponnetto, ndr), Falcone concorse, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro ed il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo: preferì Antonino Mele”.
Paolo Borsellino era stato lasciato solo e, ciononostante, ha continuato a lavorare. Paolo Borsellino è morto sotto casa di sua madre. Lontano dalla Kalsa, dal calore dei vicoli stretti, dallo splendore di Piazza San Francesco e dei campetti di calcio sui quali lui e Giovanni Falcone giocavano da ragazzi. E’ morto in una strada che era un budello, in una strada dove le macchine non dovevano parcheggiare. L’aveva chiesto tante volte ma l’amministrazione locale e il tribunale non l’avevano ascoltato. Era solo ed inascoltato Paolo.
Paolo Borsellino è morto perché non ha avuto paura, perché ha lasciato che la paura “non diventasse un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”, come amava ripetere.
16.58 gli agenti, gli uomini della scorta si gettano sul giudice, l’unica cosa che possono fare. Un gesto d’amore. Il giudice muore con il calore della sua terra che gli bacia la nuca.
Paolo Borsellino muore alle 16.58 perché è un uomo solo.
Articolo già pubblicato su AgoraVox Italia