Vi interessa sapere come sta andando l’operazione con cui il Tesoro greco prova a far accettare “volontariamente” un concambio dei propri titoli di stato con un mix di nuovi titoli a breve scadenza emessi dal fondo salva stati europeo Efsf e a lunga scadenza della Repubblica di Grecia, previa la rinuncia al 53,5% del valore nominale dei titoli (il che, contando anche i minori tassi d’interesse sui nuovi titoli, significa chiedere alle banche detentrici dei titoli in questione di rinunciare al 75% dei propri crediti nominali, pur di salvare almeno il 25% dei propri capitali investiti)? Se sì non aspettate i telegiornali, visto che col passare delle ore sta cambiando la soglia di adesioni annunciate: finora tra gli altri hanno già detto sì banche e assicurazioni come Munich Re, Allianz, Deutsche Bank, Bnp Paribas, Societe Generale, ING Groep, UniCredit e Intesa Sanpaolo, oltre a tutte le banche greche e a circa due terzi dei fondi pensione greci che hanno in portafoglio titoli di stato di Atene.
In tutto a spanne dovremmo essere già oggi (a circa 24 ore dalla scadenza dell’offerta che chiude l’8 marzo e i cui risultati saranno ufficializzati il giorno successivo) tra il 40% e il 42% di adesioni ma è prevedibile che nelle prossime ore la percentuale superi il 75% di soglia che Atene (che si è posta l’obiettivo “ambizioso” di raccogliere adesioni per il 90%, rinunciando in tal caso ad avvalersi della clausola, approvata solo qualche settimana fa, che rende nulle le azioni collettive) ha dichiarato essere il limite minimo superato il quale si consulterebbe con l’Ue e l’Fmi per decidere che fare (ossia come procedere per il rimborso, parziale, dei titoli che non fossero stati apportati all’offerta).
Vale la pena di ricordare che il 20 marzo scadono titoli di stato greci per 14,4 miliardi e che Atene non dispone dei fondi per rimborsarli, salvo che lo swap abbia successo e siano sbloccati di conseguenza gli aiuti del nuovo piano di salvataggio europeo da 130 miliardi (che si sommerebbero a quel punto a quanto resta del primo piano da 110 miliardi varato nel 2010, pari a 34 miliardi di euro circa), piano che peraltro secondo alcuni economisti non basterà a centrare l’obiettivo di ridurre il rapporto debito/Pil dall’attuale (e insostenibile, come ha ricordato il ministro dell’economia greco Evangelos Venizelos) 170% al 120,5% entro la fine del 2020 e richiederà un terzo “bailout” da almeno una ulteriore cinquantina di miliardi.
Non vi starò a ripetere perché da soli i provvedimenti come lo swap sul debito (che pure alleggerisce di oltre 100 miliardi di euro il peso sulle spalle dei contribuenti greci, scaricandolo in buona misura su quello dei contribuenti europei) o le misure di “austerity” fiscale non possano bastare a risolvere la crisi, piuttosto vi segnalo che secondo il sito finanziario greco Bankingnews.gr si dovrebbe alla fine registrare una partecipazione pari o superiore al 76,6% ed il programma “avrà successo, ma con l’attivazione della Cacs” (ossia la “temuta” clausola che esclude le azioni collettivo di risarcimento e dunque obbliga i bondholder dissidenti a sopportare le perdite senza poter sperare in un migliore trattamento futuro).
Il che rischia di creare un precedente pericoloso non solo e non tanto per la Spagna e l’Italia (che potrebbero essere tentate dallo “scaricare” un po’ di debiti “forzando” allo stesso modo una ristrutturazione “volontaria” dei rispettivi debiti pubblici, con tutti rischi che ne seguirebbero), quanto per il Portogallo (che nonostante l’ottimismo dei rappresentanti del Fondo monetario internazionale continua a sembrare sempre più simile a una “prossima Grecia”) e forse per la stessa Irlanda (che sembra avviata sulla strada di un’uscita dalla crisi ma potrebbe concedersi una “scorciatoia”). Forse anche per questo è già partito, preventivamente, un nuovo coro di lamenti contro la decisione del governo spagnolo di “cambiare le carte in tavola” annunciando uno sforamento del rapporto deficit/Pil per quest’anno nettamente superiore a quanto inizialmente concordato con la Ue, sforamento che consente a Madrid di non strozzare ancora di più la sua economia e distribuire nell’arco di un biennio il peso della “virtuosa austerità” chiesta dalla Ue, Germania in testa.
Nel frattempo l’Italia per non finire come la Grecia che fa? Per ora, purtroppo, poco e quel poco male: le annunciate liberalizzazioni delle professioni si sono ridotte a misure poco più che palliative e del tutto aggirabili, il tentativo di tagliare le unghie alle banche e assicurazioni ha già fatto gridare allo scandalo i rispettivi lobbisti col risultato di precipitosi dietrofront del governo, su taxi e farmacie i risultati sono molto fumosi e di poca sostanza, il resto (dalla concorrenza nel trasporto su rotaia alla liberalizzazione del mercato del gas) resta poco più che un auspicio: insomma la concorrenza continua a piacere solo in casa d'altri, non nel proprio settore d'attività.
Così non sarà un caso se gli investimenti fissi lordi continuano a frenare, se le aziende italiane continuano a essere sotto riflettori sì, a per potenziali alleanze all’estero come fa Fiat, che in attesa di spostare il quartier generale a Detroit si guarda intorno e non esclude (anzi conferma) di avere necessità di almeno un ulteriore partner in Europa (potrebbe essere Opel) o meglio ancora in Asia (Mazda o Nissan sembrano le favorite) mentre non si sbilancia sul futuro degli stabilimenti italiani (che per ora restano cinque, ma Sergio Marchionne continua a lodare gli operai statunitensi di Chrysler e a sottolinerare il problema di una sovracapacità strutturale in Europa, cosa che non fa troppo ben sperare per il futuro a medio-lungo termine degli impianti italiani), quando non diventano potenziali prede di concorrenti stranieri interessati al marchio e alle quote di mercato (vedi le moto della Ducati o gli yacht di Ferretti). Mentre quelle per cui si invocano “cordate patriottiche” per salvarle dalla rovina certa, continuano a perdere soldi e quote di mercato, come capita ad Alitalia.
Che fare dunque? Smetterla di picchiare sul solo tasto dell’incremento delle entrate fiscali e tornare sulla “retta via” di una sana gestione, di un taglio dei costi e degli sprechi, di un utilizzo attento delle risorse umane e dei capitali a disposizione per incentivare i settori e le attività strategiche per il paese, di una semplificazione e riduzione progressiva delle imposte su imprese e famiglie oltre che su un alleggerimento del carico burocratico e un aumento della concorrenza e delle competenze, autentici motori di sviluppo economico. Il tutto dando possibilmente spazio ai giovani e all’innovazione in tutti i campi perché, non mi stancherò mai di ripeterlo, un sistema economico e sociale governato da vecchi non può avere la capacità (né l’interesse) di guardare al futuro e di garantire occasioni a tutti gli italiani, ma solo può sperare di difendere pochi specifici interessi di questa o quella cricca, questa o quell’azienda, questa o quella “grande famiglia”. Il che nell’anno del signore 2012 sa decisamente di stantio, non trovate?