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Associazione in partecipazione e obbligo di restituzione dell’apporto

La Cassazione del 21.6.2016 n. 12816, in materia di associazione in partecipazione ex art. 2553 cc, ha stabilito che l’obbligo di restituzione dell’apporto è da ritenersi condizionato solo alla verifica dell’esito positivo dell’affare e non già all’approvazione del rendiconto da parte dell’associato o alla presentazione del rendiconto: peraltro, ove non fosse provata la positiva conclusione dell’affare, l’associato potrebbe in ogni caso azionare in via incidentale il procedimento di rendiconto.
A cura di Paolo Giuliano
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Associazione in partecipazione

Il codice civile fornisce diversi strumenti attraverso i quali è possibile unirsi per raggiungere un risultato che interessa a più persone. Lo strumento tipico è quello del contratto di società (di capitali o di persone) descritto nell'art. 2247 cc secondo il quale "con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili". Un altro strumento è l'associazione in partecipazione regolata dall'art. 2549 cc secondo il quale "con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto".

Sia l'associazione in partecipazione, sia le società sono costituite con un atto denominato dal legislatore "contratto", (cioè è richiesto un accordo tra i partecipanti), inoltre, in entrambi gli istituti è presente un legame sinallagmatico tra i diversi apporti o partecipazioni, infatti il contratto di associazione in partecipazione è caratterizzato dal legame sinallagmatico fra l'attribuzione da parte di un contraente (associante) di una quota di utili derivanti dalla gestione di una sua impresa e di un suo affare all'altro  (associato)  e  l'apporto  da  quest'ultimo conferito; mentre nella società sussiste un legame sinallagmatico tra i diversi conferimenti (necessari per costituire la società) e le quote della società (che si ricevono in cambio del conferimento) e dalle quote deriva il diritto di partecipare agli utili e alla vita gestionale della società.

Identificate queste mere coincidenze, l'associazione in partecipazione e le società sono istituti diversi.

Differenze tra associazione in partecipazione e le società

Il contratto di associazione in partecipazione:  non determina la formazione di un soggetto nuovo (una società tra associato ed associante); non determina la costituzione di un patrimonio autonomo, non determina la comunanza dell'affare o dell'impresa, i quali restano di esclusiva pertinenza dell'associante (vedi art. 2552 cc):  ne deriva che soltanto l'associante fa propri gli utili e subisce le perdite, senza alcuna partecipazione diretta ed immediata dell'associato.

Un'ulteriore differenza tra associazione in partecipazione e società è fornita proprio dall'art. 2553 cc relativo alla partecipazione agli utili e alle perdite e al diritto relativo alla restituzione dell'apporto. Infatti, mentre con il contratto di società il socio assume il rischio dell'impresa (e, quindi, anche di perdere il proprio conferimento) ed ha diritto agli utili (di solito) in proporzione al conferimento effettuato per partecipare alla società, nell'associazione in parteciapzione l'associato è molto più tutelato (proprio perché estraneo alla "titolarità" dell'affare dell'associante.

Nell'associazione in partecipazione l'associato, alla conclusione dell'affare,  può pretendere unicamente che gli sia liquidata e pagata una somma di denaro corrispondente alla quota spettante degli utili ed ha diritto alla restituzione dell'apporto; (se l'affare ha avuto un esito positivo),  l'associato diventa creditore dell'associante quanto alla restituzione dell'apporto. Se, invece, l'affare ha avuto un esito negativo l'associato ha diritto ad avere la restituzione dell'apporto detratte le perdite (che comunque non possono superare il valore del suo apporto), come regolato dall'art. 2553 cc.

Quindi, nell'associazione sono importanti due momenti la conclusione dell'affare per la quale è sorta l'associazione in partecipazione e l'esito positivo o negativo dell'affare. Infatti, l'affare può non concludersi, l'affare può concludersi cone sito positivo (utili), l'affare può concludersi cone sito negativo (perdite).

Diritto alla estituzione dell'apporto

In base a quanto detto si potrebbe sostenere che anche quando l'affare si è concluso il diritto alla restituzione dell'apporto non sorge immediatamente, ma solo dopo che siano definiti tutti i rapporti attivi e passivi  (posto che solo in questo momento è possibile determinare se esistono utili o perdite). Quindi, il diritto alla restituzione dell'apporto (ad affare concluso) sarebbe sottoposto alla duplice condizione che devono essere "definiti i rapporti attivi e passivi facenti capo all'associazione in partecipazione" e che deve essere fornita la rendicontazione da parte dell'associante.

In realtà, dal momento in cui l'affare è concluso, con lo svolgimento delle attività liquidatorie che normalmente si accompagnano  alla  conclusione  dell'associazione  in partecipazione, diventa esigibile il diritto alla restituzione dell'apporto, sempre che siano derivati utili (diversamente, secondo la previsione di cui all'ultima parte dell'art.2553 c.c., l'associato partecipa alle perdite, entro il valore del proprio apporto).

L'obbligo di restituzione dell'apporto è da ritenersi condizionato solo alla verifica dell'esito positivo dell'affare (alla prova della conclusione dell'affare) e non già all'approvazione del rendiconto da parte dell'associato, o alla presentazione del rendiconto (poichè, altrimenti, si lascerebbe nella discrezionalità dell'associante procrastinare il sorgere del diritto in capo all'associato).

Peraltro, ove non fosse provata la conclusione dell'affare con esito positivo, l'associato potrebbe in ogni caso azionare in via incidentale il procedimento di rendiconto; ed infatti,  il procedimento di rendiconto di cui agli artt. 263 cpc ss è fondato sul presupposto dell'esistenza dell'obbligo legale o negoziale di una delle parti di rendere il conto all'altra, facendo conoscere il risultato della propria attività in quanto influente nella sfera di interessi patrimoniali altrui o, contemporaneamente, nella altrui e nella propria, e, come tale, si ricollega all'esistenza di un rapporto di natura sostanziale e si instaura a seguito di domanda di rendiconto proposta in via principale od incidentale, sviluppandosi, quindi, come un giudizio di cognizione di merito, sia pure speciale, il cui atto terminale – in caso di accettazione del conto – è un'ordinanza non impugnabile del giudice istruttore, mentre – in caso contrario – è una sentenza (se del caso parziale quando trattasi di procedimento promosso in via incidentale) avente attitudine ad acquisire efficacia di giudicato sul modo di essere della situazione sostanziale inerente l'obbligo di rendiconto (e ciò, o in via esclusiva, o in via strumentale, rispetto ad altra situazione costituente il diritto principale cui si ricollega l'obbligo di rendiconto).

Cass., civ. sez. I, del 21 giugno 2016, n. 12816 in pdf

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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