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Argentina di nuovo a rischio default

Guai in vista per l’Argentina dopo che la Corte Suprema Usa ha rigettato l’appello di Buenos Aires contro una sentenza favorevole ai fondi “avvoltoi” Usa. Il problema non è rimborsare gli ultimi 1,3 miliardi di bond finiti in default, ma il rischio di dover rinegoziare anche le intese raggiunte, facendo nuovamente fallire il paese.
A cura di Luca Spoldi
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L’Argentina pagherà, ma solo io titoli del debitoristrutturato in Argentina e sotto la legge argentina”. Lo ha fatto sapere ieri sera in conferenza stampa il ministro dell’Economia, Axel Kicillof, dopo che la Corte Suprema Usa aveva respinto il ricorso di Buenos Aires contro i fondi hedge statunitensi che non hanno accettato la ristrutturazione del debito decisa unilateralmente dal paese latinoamericano nel 2005 su 82 miliardi di titoli di stato dopo la dichiarazione di default a fine dicembre 2001 che aveva interessato nel complesso titoli di debito estero per 93 miliardi di dollari di ammontare. Una decisione a cui si era arrivati, come farebbe bene a ricordare chi invoca l’uscita dell’Italia dall’euro come unica “medicina” alla crisi economica dovrebbe tenere a mente, dopo la decisione di di adottare un sistema di cambi flessibili (prima della dichiarazione di default il peso argentino veniva mantenuto in un rapporto fisso di 1 a 1 contro dollaro) che provocò una svalutazione “competitiva” del 75% (in poco tempo occorsero 4 peso per ogni dollaro Usa) ed una violenta fiammata inflazionistica (si arrivò al 40% annuo prima di tornare a flettere), oltre ad un crollo dell’11% del Pil nel corso del solo 2002.

I capitali stranieri, che nonostante la recessione del paese erano continuati ad affluire fino al 2001, attratti dagli elevati interessi pagati sui bond argentini, rapidamente come erano venuti se ne andarono (altra lezione da tener presente, questa volta da parte di chi troppo rapidamente scambia la “fiducia del mercato” e il “calo degli spread” come un sintomo di ritrovata vigoria economica) e a quel punto il default fu inevitabile, così come inevitabile fu la successiva, faticosa, ristrutturazione. Mentre Buenos Aires varava rigorose riforme “lacrime e sangue” nel tentativo di riconquistare la fiducia dei mercati (peraltro finora senza successo), molti creditori internazionali iniziavano a cercare transazioni con l’Argentina per ottenere quanto più possibile dei propri capitali indietro. Alla fine, grazie a due successive ristrutturazioni nel 2005 e nel 2010, che alla fine furono accettate dai possessori del 92,6% del totale dei titoli in default, l’Argentina fu in grado di lasciarsi alle spalle il grosso della partita e quasi mezzo milione di risparmiatori italiani di rivedere almeno una parte dei soldi persi (a seconda dei titoli venne rimborsato tra il 25% e il 35% del valore nominale).

Sono rimasti tuttavia esclusi da ogni accordo circa 4 miliardi di dollari di titoli, di cui 1,3 miliardi in mano ai “fondi avvoltoi” americani che acquistarono i titoli in default quando altri investitori li buttavano letteralmente dalla finestre e che da allora chiedono di essere integralmente rimborsati. Sono questi i fondi contro cui Buenos Aires ha appena perso il ricorso e se potrebbe sembrare un problema da poco rimborsare 1,3 miliardi di dollari (1,5 includendo gli interessi nel frattempo maturati), le cose non stanno affatto così. A distanza di oltre un decennio, infatti, l’Argentina non è ancora stata in grado di tornare a emettere nuovi titoli di stato sui mercati internazionali e non possiede le risorse necessarie per ottemperare integralmente alla sentenza del giudice di New York, Thomas Griesa (appena confermata dalla Corte Suprema americana).

Il problema è infatti legato alla necessità di offrire parità di trattamento a tutti gli obbligazionisti in forza della clausola di “pari passu” a suo tempo inserita nei due accordi di ristrutturazione. Per questo anche l’ultima proposta argentina, dell’agosto dello scorso anno, ricalcava i termini dell’ultima ristrutturazione del 2010: perchè proposte che fossero più vantaggiose andrebbero estese anche a chi ha già accettato le precedenti intese, di fatto vanificandole e obbligando Buenos Aires, in caso di rimborso integrale ai fondi americani, a ripagare non 1,5 ma almeno 65-70 miliardi di dollari (esattamente quanto “risparmiato” col default) o comunque una cifra di decine di volte superiore al solo costo del rimborso ai fondi americani.

Così mentre in patria il governo argentino mostra i muscoli, la presidente argentina, Cristina de Kirchner, cerca di trovare una via d’uscita il più possibile indolore ed ha subito inviato il proprio capo di Gabinetto, Jorge Capitanich, lo stesso Axel Kicillof e il Segretario legale alla presidenza, Carlos Zannini, a incontrare il giudice Griesa, che da parte sua aveva dichiarato di non voler “spingere l’Argentina verso il default”, per valuare i margini di trattativa esistenti. Non è dato sapere come potrà concludersi questa (brutta) storia di svalutazioni e ristrutturazioni del debito sovrano, ma le sensazioni non sono affatto positive. Di certo le agenzie di rating restano in allarme e in attesa che scadino i 30 giorni di “periodo di grazia” concessi dalla Corte all’Argentina per ottemperare ai suoi obblighi, Standard & Poor’s ha già limato il rating sovrano argentino (consideratoaltamente speculativo”)  da “CCC+” a “CCC-” con un outlook “negativo”, motivando la decisione col “maggiore rischio di default” che sta correndo il paese sudamericano.

Morale della storia: in Argentina, dove nonostante le riforme il problema della corruzione e della scarsa qualità della spesa pubblica non pare essere stato scalfitto, il ripudio del debito non si è rivelata una medicina efficace per far ripartire il paese; in Grecia (dove si potrebbero fare considerazioni sulla qualità della classe dirigente) dove si è optato per un default “pilotato” assistito da un “bailout” internazionale, neppure. A questo punto mi auguro nessuno pensi sia necessario un terzo “esperimento” per arrivare a trovare la ricetta giusta per rilanciare un paese che da troppi anni non cresce, il cui debito è ormai superiore ampiamente al proprio Prodotto interno lordo e dove, non sarà un caso, la classe dirigente da troppo tempo assomiglia ad una “classe digerente”. Indovinate a quale paese sto pensando?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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