Antonio Latella riscrive Fassbinder superando il mélo (VIDEO BACK STAGE)
Stavolta siamo andati a Modena, al Teatro Storchi, per seguire la prova generale e il debutto del nuovo spettacolo di Antonio Latella: “Ti regalo la mia morte, Veronika”, che il regista ha scritto insieme a Federico Bellini e liberamente ispirato alla poetica del cinema fassbinderiano, in special modo al film “Veronika Voss”.
Latella è un gran cinefilo. E questo forse si sa poco. E non è nemmeno un cinefilo comune, “della domenica”. È un autentico divoratore di film, uno che, tanto per intenderci, guarda con interesse dai blockbuster a Aleksandr Sokurov, da Tim Burton a Michael Haneke. In altre parole, quello che vogliamo dire è che la dimensione “cinema” è molto presente nel suo immaginario e nel suo teatro e non solo come sfondo o semplice rimando (“Un tram che si chiama desiderio”, “Via col vento”…)
Ciò detto, la cosa interessante, e che spiega questa breve intro, è che Latella ama molto quegli aspetti strettamente legati alle specificità proprie del cinema: penso soprattutto alle atmosfere, ai climi emotivi, alla “forma” con cui i registi riescono a tradurre un sentimento. Se partiamo da qui, allora vediamo che la scelta di Veronika Voss non è casuale per affrontare un discorso sul cineasta tedesco. Del resto Fassbinder è un autore che Latella conosce bene – già nel 2006 aveva portato in scena “Le lacrime amare di Petra von Kant” – e che è tornato a frequentare per un motivo molto semplice. Fino a oggi Fassbinder è stato un’icona della trasgressione – era omosessuale e tossicodipendente ed è morto di overdose a soli 37 anni – ma a rivederlo oggi, con tutti e due i piedi piantati nel XXI secolo, è già classico. Eccolo il baricentro del discorso. Oltre alla trasgressione, oltre a un certo tipo di mélo, riecheggiano in lui la tragedia greca, Cechov, persino Ibsen, come lo stesso regista ci ha raccontato. Allora, capiamo che l’operazione di Latella è la “solita”: prende un autore e anziché assecondarlo o inseguirlo, lo attraversa, dirigendosi e ‘dirigendolo’ in un altrove, un limbo, come lui stesso lo ha definito, per salvarlo così dall’oblio della tradizione e dalla sclerosi dello storicismo.
Quindi, si diceva, “Veronika Voss”. Uno dei film di Fassbinder, il penultimo per l’esattezza, più formali ed estetizzanti, più dolorosi e allucinati (di più forse c’è solo “Querelle”). Uscì nel 1982 e vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino. Dettaglio non di poco conto è che Fassbinder vi interpreta anche un cameo, proprio all’inizio, in cui compare seduto in una sala cinematografica alle spalle della sua protagonista, come a dire: lei, sono io. Ma dicevamo: formale e allucinato… teniamo queste come chiavi d’accesso. Ma formale in che senso? Innanzitutto, nella scelta fotografica: un bianco e nero molto contrastato, con picchi di sovraesposizione da bruciare la retina. Addirittura nelle scene sul set – Veronika è un’ex diva del cinema di propaganda nazista che vive nell'ossessione del suo passato – è tutto un luccicare di lens flare (riflessi in camera) che quasi impediscono di osservare la scena. E poi, e questo è un elemento fondamentale, il 90% delle inquadrature sono “impallate” dalle quinte, oppure lo spettatore è costretto a vedere attraverso vetri, specchi, ringhiere. Come a indicare uno sguardo voyeuristico o meglio, uno sguardo che sta in un al di là. Va detto che Fassbinder quando girò questo film pare assumesse circa 6 grammi di cocaina al giorno. Sì, al giorno! E quindi, come ha notato Latella nel corso della nostra intervista, “come si fa a essere così lucidi, girando un film così preciso e formale, pur essendo completamente alterati?”.
“Veronika Voss” dunque è la storia di un’eroina, nella doppia valenza del termine, e del suo viaggio inesorabile verso la morte. Veronika è una morfinomane che, non riuscendo più ad accettare la realtà, si prepara, lungo tutto il film, ad abbandonare la vita. E lo fa con tanto di festa finale.
Ma Latella come si comporta con una storia simile? Cosa ne fa di Veronika e come ci parla attraverso lei di Fassbinder? Innanzitutto, visto che la protagonista già in partenza ha accettato la propria morte, Latella la colloca al centro di un coro. Un coro da teatro greco. La cosa curiosa è che questo coro è composto da scimmioni albini dotati di microfoni gelato. Il primate, va detto, è una figura ricorrente nel suo teatro e rappresenta l’archetipo del primo uomo, una sorta di eco di una coscienza remota che per Latella è più ‘credibile’ del personaggio. Detto ciò, lo spettatore assiste quindi fin dall’inizio a una lenta e inesorabile corsa, come al ralenti, verso la sua morte.
Latella parla di una messinscena ‘classica’, il che forse vedendo le immagini può suonare come un’affermazione provocatoria. In realtà la messinscena è decisamente ‘classica’: in primis c’è una frontalità rigorosissima perché sul palco c’è una fila di poltrone da sala cinematografica – quella stessa sala in cui siede Fassbinder all’inizio del film – perfettamente speculare alla prima fila di poltrone del teatro. E poi l’andamento è cadenzato con estrema precisione e logica, senza sbavature o particolari ellissi: entrata dell’eroina in scena, monologo introduttivo, ingresso del coro, viaggio mentale della protagonista nel proprio passato, punto di rottura e caos – di quei caos alla Latella, quindi luci stroboscopiche, musica tecno, ecc… – e reboot, altro topos latelliano. È qui che il palco viene svuotato di ogni cosa o persona lasciando la protagonista sola, in una luce biancastra e violacea, da Paese delle meraviglie. Ma quando sembra che ormai siamo alla fine… bolla o “limbo” come si diceva prima. Di cosa si tratta? Del momento che negli spettacoli di Latella tutti gli appassionati e i fan aspettano. È un ‘di più’ necessario, in cui il regista vuole farci capire dove si trova adesso, dove è arrivato grazie a quest’ultimo lavoro. E quindi, senza giri di parole: dov’è Latella/Fassbinder adesso? L’unica risposta che possiamo darvi, senza svelare il finale, è: si trova nel bel mezzo di un déjeuner sur l’herbe, in un’atmosfera tipicamente primaverile, insieme con tutti i suoi fantasmi in abiti dalle gonne a campana. E poi c’è quella battuta: “Amo il naturalismo perché almeno si mangia” pronunciata da un’attrice mentre apre il cesto del pic-nic… cosa dovrebbe farci capire? Cosa dobbiamo aspettarci dal prossimo spettacolo?
Piccola ma indispensabile appendice. Dato che in questo articolo abbiamo ritenuto di riferirci costantemente al film, che consigliamo di vedere prima dello spettacolo, abbiamo tralasciato di citare gli attori: da Monica Piseddu ad Annibale Pavone, a Valentina Acca, Candida Nieri, Caterina Carpio, Nicole Kehrberger, Fabio Pasquini, Maurizio Rippa e gli ombristi di alTREtracce. Tutti professionisti eccelsi, molti dei quali già largamente utilizzati da Latella e che sotto la sua guida, almeno secondo il nostro parere, raggiungono livelli stellari. Le scenografie sono di Giuseppe Stellato che per il finale ha realizzato un vero e proprio capolavoro di artigianato scenico, con dettagli di progettazione impressionanti. I costumi di Graziella Pepe, ça va sans dire, sono splendidi, basta guardare le immagini. Simone De Angelis al disegno luci segna l’ennesimo gol in rovesciata e Franco Visioli al suono, sembra persino superfluo ricordarlo, è un maestro come ce ne sono pochi in Italia. A lui va inoltre un particolare ringraziamento per le musiche necessarie a realizzare al meglio il video.