Avete presente quando un arbitro in una partita non vede un rigore e per “aggiustare” l’errore è poi tentato dall'assegnarne uno inesistente? E’ la sensazione che si prova ad analizzare le ipotesi finora emerse dell’anticipo pensionistico (“Ape”) che il governo sta studiando come “soluzione” per chi voglia lasciare anticipatamente il lavoro rispetto all’età necessaria a percepire la pensione di vecchiaia. Proviamo a fare chiarezza a partire dai problemi che hanno generato questa ipotesi.
Il primo problema non è direttamente legato alle pensioni né al mondo in cui si pensa di finanziare l’Ape, bensì al lavoro stesso: in Italia la produttività del lavoro è stagnante se non in calo da anni, mentre quella dei suoi concorrenti europei ed extraeuropei è tendenzialmente in crescita. Nel 2015, ad esempio, gli occupati sono aumentati in Italia dello 0,6%, il monte ore lavorato dello 0,9%, mentre il Pil reale è cresciuto dello 0,8%. Come dire che la produttività è salita dello 0,2% se confrontiamo quanto sono cresciuti gli occupati e il Pil reale, ma è diminuita dello 0,1% se confrontiamo monte ore lavorate e Pil.
Un’economia che si basa su una bassa produttività del lavoro non è in grado di generare significative risorse né per assumere nuovi occupati (salvo temporanee accelerazioni legate all’esistenza di specifici sussidi fiscali, che però sono un costo che si scarica sulla collettività) né per innovare significativamente (e infatti le aziende italiane sono per la maggior parte attive in settori maturi e a medio grado di specializzazione, purtroppo i più esposti alla concorrenza sul prezzo), né per “anticipare” pensioni ai lavoratori che, con l’aumentare dell’età, tendono ad essere sempre più difficilmente ricollocabili nel caso di crisi aziendali o di settore.
Nell’ultimo biennio, nonostante il governo e molti commentatori additassero alla “repressione fiscale” voluta dall’Unione europea su pressione tedesca il prolungarsi della crisi economica che ha, tra le altre cose, fatto crescere gli esuberi e creato, stante la riforma Fornero, continui flussi di esodati, ossia di lavoratori usciti dal mercato del lavoro prima di poter ricevere un assegno pensionistico, il saldo primario del bilancio pubblico corretto per gli effetti del ciclo economico, è cresciuto all’1,3% del Pil, rispetto ad uno 0,4% medio in Eurolandia, come dire che (a debito) il governo ha espanso la spesa pubblica per cercare di sostenere la ripresa e l’ha fatto in misura superiore agli altri partner dell’area dell’euro.
Eppure ciò non è bastato a generare la crescita necessaria a risolvere alcuni dei problemi (in ordine sparso: la crisi delle banche, il persistente stato di crisi di molti settori, la necessità di correggere almeno in parte proprio la riforma Fornero) su cui da tempo il governo esprime un “whisful thinking” (pio desiderio) di cambiare passo e direzione. Cosa c’entra tutto questo con l’anticipo pensionistico e la proposta di finanziarlo attraverso un prestito ventennale garantito dall’Inps ma erogato dalle banche e che sarebbero gli stessi futuri pensionati a dover ripagare (a caro prezzo, visto che dovrebbero anche farsi carico dell'assicurazione del rischio di premorienza del futuro pensionato), subendo delle trattenute una volta che percepiranno l’assegno pensionistico?
C’entra perché un’economia che non cresce da quasi 20 anni, che ha una bassa e stagnante produttività del lavoro, che ha un elevato livello di debito pubblico e un sistema bancario indebolito dalla crisi del 2008-2009 e da ricette poco felici adottate per superarle che hanno di fatto penalizzato la domanda e ulteriormente indebolito l’apparato produttivo, non può sperare di avere risorse che non siano quelle che ciascun cittadino, individualmente, ha accumulato nel corso della sua vita lavorativa. Quel risparmio, tra parentesi, che il governo ha penalizzato in quest'ultimo biennio alzando la tassazione sulle “rendite finanziarie” (ma non sui titoli di stato) per trovare coperture con cui finanziare l'incremento di spesa pubblica di cui sopra.
Per questo non può essere l’Inps (il cui presidente Tito Boeri plaude anzi all’iniziativa), per questo le banche non potranno fare sconti, per questo le aziende sono ben felici (attraverso le dichiarazioni del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia) che si crei una soluzione ponte che risolva anche “la questione di sostenibilità economica e finanziaria”. In ogni caso, sembrerebbe, quest’ultimo punto potrebbe non riguardare le casse previdenziali pubbliche, che in qualche modo, si sussurra, potrebbero dover intervenire per evitare un salasso ai futuri pensionati.
I quali futuri pensionati, sarebbe il caso di ricordarlo, se la crescita economica dovesse tornare a indebolirsi si troverenno a decidere “spintaneamente”, finendo tra l’incudine di essere esclusi dal mondo del lavoro e il martello di non aver ancora diritto alla pensione. Riassumendo: alle banche non si può addossare l’onere, vista la debolezza attuale; alle imprese non si può addossare l’onere, vista la debolezza attuale e prospettica; lo stato farà forse uno sforzo, ma alla lunga ogni sforzo fatto dallo stato rischia di tradursi in un ulteriore conto trasferito sulle spalle dei contribuenti.
Già ora troppo tardi per rimediare alla “svista arbitrale” fatta in questi ultimi anni. L’unica cosa che si può decidere di fare (o non fare) è assegnare un rigore inesistente e falsare ulteriormente la partita, o evitare di assegnarlo, sapendo che comunque si è falsato il risultato della gara. In termini meno prosaici, visto che non abbiamo saputo per tempo posizionarci su settori ad alto valore aggiunto e abbiamo dilapidato un patrimonio di competenze, ricchezza e tempo per cercare di difendere posizioni spesso indifendibili, ora ci troviamo in questa situazione.
Come uscirne e garantire una prospettiva migliore ai futuri pensionati dei prossimi anni ma anche dei prossimi decenni? Investendo in innovazione, attirando immigrazione qualificata, alzando la produttività del nostro lavoro e riposizionando le nostre aziende (e le nostre banche). Peccato che per riuscire a fare tutto questo occorrerebbero anni, quegli stessi anni che abbiamo già perduto: per questo è già troppo tardi, qualunque decisione si prenda.