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Opinioni

Anche da Enel e Pomellato la conferma della crisi

Il peso della crisi è sempre più evidente dai bilanci di piccoli e grandi gruppi, mentre si moltiplicano le eccellenze italiane che vengono comprate da gruppi esteri. Ma di tutto questo la politica continua a non parlare.
A cura di Luca Spoldi
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Fulvio Conti Enel

Lasciamo perdere il problema politico, ormai macroscopicamente evidente in un paese in cui l’elettorato è spaccato in tre blocchi sostanzialmente di pari peso (Pd, Pdl e M5S), che però rappresentano una percentuale costantemente in calo della popolazione (oltre un quarto dell’elettorato non vota o vota scheda bianca o nulla), dopo 15 anni di promesse  non mantenute, totale assenza di una politica industriale degna di questo nome, richiami al “libero mercato” ad uso e consumo di lettori e spettatori dei “vecchi media” sempre più compromessi col potere politico ed economico ma poi mai concretizzati in misure di liberalizzazione che le mille corporazioni in cui si divide la “società civile” italiana osteggiano costantemente,  assenza di una crescita economica quando non vera e propria decrescita, inevitabile e infelicissimo risultato di quanto sopra.

Parliamo piuttosto di come sta l’economia reale, della “strada” che chi siede ai vertici di grandi gruppi industriali e finanziari o peggio ancora di qualche poltrona “pubblica”, fatica a comprendere dall’alto di retribuzioni (e pensioni) d’oro sostanzialmente insensibili a qualsivoglia crisi o fase recessiva. Sta certamente non bene, come chiunque di voi può già capire da se. Con conseguenze che si vedono sui conti dei grandi come dei piccoli gruppi. Un colosso come l’Enel, per dire, ha visto nel 2012 i ricavi crescere del 6,8% a 84,889 miliardi (dai 79,514 miliardi del 2011), ma il risultato operativo lordo (Ebitda) è calato del 4,9% a 16,738 miliardi (da  17,605 miliardi). Ancora peggio è andata all’utile operativo netto (Ebit), crollato del 31,4% a 7,735 miliardi (da 11,278 miliardi) a causa della decisione di procedere a svalutazioni dell’avviamento pari a 2,584 miliardi.

Di questi 2,392 miliardi sono relativi alla sola Endesa, la controllata spagnola, e riflettono dunque il peso della crisi spagnola sui conti del colosso energetico italiano (il problema non riguarda solo Enel, basti pensare alle difficoltà delle controllate spagnole di Rcs MediaGroup o Mediaset) che così ha dovuto rivedere al ribasso i propri obiettivi per il periodo 2013-2017: quest’anno il gruppo si attende un Ebitda in ulteriore calo attorno ai 16 miliardi, un utile netto ordinario sulla soglia dei 3 miliardi (dai 3,45 miliardi dell’anno passato) e un’ulteriore calo dell’indebitamento finanziario netto attorno a 42 miliardi (42,95 miliardi circa a fine 2012). Nel 2015 l’Ebitda stabilizzarsi attorno ai 16 miliardi, l’utile netto ordinario risalire sui 3,3 miliardi e il debito scendere sui 37 miliardi, mentre a fine 2017 l’Ebitda risalire tra i 17 e i 18 miliardi di euro, l’utile netto ordinario balzare tra i 4 e i 5 miliardi e l’indebitamento finanziario netto ridursi ancora leggermente tra i 36 e i 37 miliardi.

Per riuscire a centrare questi numeri il gruppo italiano procederà a ulteriori risparmi in termini di costi cumulati pari a 4 miliardi nell’arco del piano, a cessioni per complessivi 6 miliardi e ad emissioni di strumenti “ibridi” per circa 5 miliardi, tagliando gli investimenti su tali mercati di Italia e Spagna da 5,3 a 4,6 miliardi per quanto riguarda le attività di generazione (con un conseguente calo della capacità istallata dai 59 GW di fine 2012 a soli 52 GW a fine 2017), mentre quelli per le attività di distribuzione saranno potenziati dai circa 6,2 miliardi preventivati nel piano precedente a circa 6,5 miliardi. Al contrario gli investimenti dedicati allo sviluppo in Est Europa e America Latina saranno portati da 8,7 a 9,4 miliardi e la capacità istallata salirà dai 38 GW del 2012 a 43 GW nel 2017. Insomma, per Enel non meno che per i gruppi di media e piccola dimensione, l’unica salvezza sembra ancora ridurre la propria presenza in Italia e in Europa e spostare le produzioni sui mercati emergenti.

Nel frattempo l’Europa, quando non i mercati emergenti, continuano a fare “shopping” nel Belpaese, rilevando marchi eccellenti in tutti i settori. Così dopo aver salutato le moto della Ducati (finita sotto il cappello del gruppo Volkswagen-Audi), gli yacht di Ferretti (rilevati dai cinesi di Shig-Weichai), il latte e le merendine Parmalat (finite al colosso francese Lactalis), anche i gioielli di Pomellato dovrebbero entro un paio di settimane o poco più finire in mano al gruppo francese Ppr guidato da Francois-Henri Pinault, che in Italia aveva già rilevato marchi come Gucci e Bottega Veneta. Certo, sempre meglio vedere un gruppo passare di mano che non quanto capitato ad altri marchi famosi (valga per tutti l’esempio di Richard Ginori) che per colpa della crisi o di proprietà e management rivelatisi non all’altezza della situazione hanno finito col dover chiudere bottega.

Così il quadro, anche a livello “micro”, resta precario, dato che a soffrire maggiormente la crisi sono le Pmi italiane, ancora deboli finanziariamente e poco presenti nella maggior parte dei casi sui mercati internazionali, senza un “appeal” tale da invogliare investitori esteri ad acquisirle per rilevarne marchi e brevetti e garantirne la prosecuzione delle attività, in Italia o altrove. Di tutto questo la politica sembra non accorgersi se non a parole, mentre le banche continuano a tener stretto il rubinetto del credito, le imprese stentano a trovare una motivazione razionale per provare ad effettuare nuovi investimenti e le disuguaglianze crescono acuite dalla recessione. Occorre fare presto, dare vita a un governo in grado di trattare la ristrutturazione dell’eurozona e dell’euro, di rilanciare la crescita, prima che l’Italia finisca sugli scogli come e peggio della Costa Concordia. Ma l’aria che si respira, da Milano a Napoli, è quello dell’attesa, della sospensione, del temporale che ancora deve sfogarsi prima che torni il sereno. Così l’ipotesi di un (secondo) decennio “perduto” alla giapponese è sempre più presente nei fatti e non solo nelle teorie: lasciate ogni speranza o voi che state (in Italia)?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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