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Altro che statali: la colpa della ripresa che non c’è sta altrove

Mentre a fine marzo le retribuzioni degli statali mostravano una crescita nominale nulla sui dodici mesi precedenti, le imprese continuano a chiedere soldi alle banche, ma troppo spesso non sanno come farlo.
A cura di Luca Spoldi
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Antonella Mansi

Altro che colpa degli statali. Sfatiamo un luogo comune, che uno dei problemi se non “il” problema in Italia sia il costo dei lavoratori statali, variante antropologica dell’altrettanto fuorviante concetto che il problema della mancata crescita dell’economia italiana risiederebbe nell’eccessivo “costo del lavoro”. In realtà questa solenne panzana viene riproposta di generazione in generazione sin da tempi se non biblici almeno sin dagli albori della rivoluzione industriale, nata guarda caso in Inghilterra, paese dove il “costo del lavoro” era tra i più alti d’Europa (in quanto legati ad una altrettanto elevata produttività) come ricordato ancora di recente in alcuni testi di storia economica (di cui ha avuto modo di parlare l’amico Massimo Fontana nel blog Archeo-Finanza). Che il problema sia la produttività del fattore lavoro (e del fattore capitale) più che il solo “costo” di tale fattore dovrebbe essere evidente ma se non lo fosse vi faccio notare che secondo l’Istat a marzo l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie in Italia è rimasto invariato rispetto al mese precedente, segnando una crescita dell’1,2% su base annua (il minimo mai segnato dal 1983), segnando in particolare un incremento dell’1,7% per i dipendenti del settore privato e una variazione nulla per quelli della pubblica amministrazione. E visto che, sempre in marzo, l’inflazione in Italia è risultata pari al 3,3% su base annua vuol dire che paghe e stipendi del settore privato sono mediamente calate, in termini reali, dell’1,6% nel corso degli ultimi dodici mesi, mentre per gli statali la variazione negativa reale è doppia (il 3,3%, appunto). Semmai uno dei problemi dell’economia italiana è che ancora oggi esistono pochi controlli circa la reale produttività del personale della pubblica amministrazione, a partire dalla sua dirigenza (spesso arrivata ad occupare una carica più per meriti politici che non solo per la competenza e la produttività mostrata nel corso della carriera). Del resto al netto dei facili slogan populistici che non offrono soluzioni ma solo indicano genericamente colpe e problemi da attribuire a questo o a quello, i dipendenti pubblici sono lo strumento di una pubblica amministrazione sempre più logora, vecchia nella propria dotazione tecnologica, nelle competenze organizzative e nella capacità di aggiornare i suoi dipendenti, con cronica carenza di fondi e una gestione degli stessi che soggiace, ancora una volta, a criteri il più delle volte “politici” e molto poco trasparenti, più che economici e democratici.

Alle imprese serve credito. Su quale sia il problema più urgente da risolvere per dare all’economia italiana la chance di tornare a crescere ha le idee chiare la numero due di Confindustria, Antonella Masi, secondo cui “l’accesso al credito, i pagamenti arretrati della PA, l’irrigidimento del sistema bancario sono oggi il tema principale per le imprese italiane”, imprese che per la Masi “hanno bisogno di internazionalizzazione, innovazione, qualità”. Tutte cose che costano, par di capire, e per le quali le banche dovrebbero tornare ad aprire, sia pure con la dovuta attenzione per non ripetere gli errori e gli orrori fatti in un passato fin troppo recente (è di oggi la notizia che Fondiaria-Sai, cui Mediobanca ha prestato qualcosa come un miliardo di euro prima di iniziare a cercare di “salvare” il gruppo Ligresti trovandogli un cavaliere bianco come Unipol, guarda caso a sua volta tra i debitori di Piazzetta Cuccia, vanta nei confronti di Sinergia, una delle due holding della famiglia azionista di maggioranza (per le quali la Procura di Milano ha proposto istanza di fallimento), un credito di 162 milioni di euro (di cui 141 milioni riferiti a tre immobili in corso di costruzione), riservandosi di assumere “tutte le iniziative necessarie a tutela dei propri diritti” anche “attraverso la negoziazione di accordi di ristrutturazione del debito del gruppo Sinergia”, oppure “la ricerca delle più appropriate e ulteriori iniziative di natura negoziale o giudiziale”. Insomma: il rapporto banche-imprese in questi decenni è stato tutt’altro che immacolato e trasparente da entrambe le parti e forse questo e le relative conseguenze (una inefficiente allocazione del capitale, un costo più elevato del necessario dello stesso) ha inciso quanto e più del costo del fattore lavoro (e di quello del pubblico impiego in particolare) nell’andamento dell’economia italiana dal dopoguerra ad oggi e rischia di incidere ulteriormente negli anni a venire se il rapporto stesso non migliorerà. Come? Secondo alcuni come il professor Alessandro Berti, docente associato di Economia degli Intermediari Finanziari presso l'Università Carlo Bo di Urbino, se il 37% delle Pmi non riceve credito “ci si deve chiedere se sia solo colpa delle banche” e interrogarsi dove stia andando la propria impresa a prescindere da quello che ne può pensare un istituto di credito. Il problema, nota Berti su Twitter, è che sebbene molti progetti imprenditoriali possano essere fallimentari già in partenza, nessuna banca ha un ufficio per le società neo-costituite, il che rende oggettivamente difficile valutare sul credito che possa o meno essere concesso a nuove società.

Il credito occorre saperlo chiedere. Per Berti le banche “non devono finanziare idee, è una scemenza, non coi soldi dei risparmiatori” almeno, visto il rischio connesso. A muoversi dovrebbero essere altri operatori, come società di venture capital che però in Italia sembrano voler fare “solo turnaround o replacement e non start up”. Insomma: le imprese dovrebbero per prime crederci e puntare sull’innovazione, a partire dall’investimento in nuovi brevetti, mentre gli intermediari economici farebbero bene a fare al meglio il proprio mestiere, ciascuno per la sua parte e competenza. Ancora più radicalmente Berti sostiene che “le le imprese non sanno perché hanno bisogno di soldi” e così pure le banche, per cui servirebbe almeno presentare adeguati business plan, piani economici e di finanziamento a cinque anni, verificare che funzionino o quanto meno predisporre con cura “un piano economico finanziario di previsione, funzionante”, mentre sovente gli imprenditori provano a chiedere capitali del tutto sprovvisti di un minimo di bagaglio informativo. Ancora una volta, insomma, il problema vero che sembra ostacolare la crescita economica italiana è di stampo prettamente culturale: chissà perché non ne sono affatto sorpreso.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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