Al partito di Silvio Berlusconi piace giocare facile: con la richiesta di abolire l’Imu (prevista peraltro dallo stesso governo Berlusconi e dal governo Monti solo anticipata di un anno per far fronte alla pressione dei mercati, che a fine 2011 vedevano l’Italia a un passo dal default a giudicare dall’andamento di tassi e spread sui titoli di stato) sulla prima casa il Centrodestra distoglie ancora una volta l’attenzione del paese dai veri problemi per cercare di massimizzare la propria visibilità elettorale, il che già di per sé non dovrebbe promettere nulla di buono quanto a reali capacità di operare riforme incisive da parte del neo costituito governo Letta. Perché dico questo? Perché l’Imu (che sulla prima casa ha raccolto circa 4 miliardi di euro dei 23,7 miliardi raccolti complessivamente) ha comportato mediamente un esborso di poco più di un centinaio di euro per i milioni di famiglie italiane proprietarie solo di un immobile.
Di per sé l’Imu distorce certamente (come tutte le imposte, del resto) il mercato di riferimento (quello immobiliare), il cui andamento dipende peraltro da una serie di altri fattori, primo tra tutti l’incrociarsi di domanda e offerta in base all’andamento dei prezzi, a sua volta influenzato dalle attese che sia venditori sia compratori hanno rispetto ai prezzi futuri. Per inciso secondo Immobiliare.it a inizio mese la percentuale di italiani che ritiene che questo non sia un buon momento per vendere sale di altri 3 punti rispetto a dodici mesi or sono e raggiunge il 72% (un ulteriore 10,5% preferirebbe attendere un altro anno sperando che i prezzi risalgano, solo il 12% ritiene che vi siano buone occasioni per cedere un immobile). Incertezza evidente e in crescita anche più accentuata (7 punti percentuali più di dodici mesi or sono) anche sul fronte dei venditori, dove il 25,2% degli intervistati ritiene più prudente rinviare ogni transazione almeno di 12 mesi. Il tutto mentre il 60% degli intervistati (erano solo il 39,3% un anno fa) ritiene che i prezzi scenderanno ancora (solo l’8% pensa che il calo sia ormai concluso e nel prossimo futuro i prezzi torneranno a salire).
E’ del tutto evidente che in un mercato ingessato come quello italiano lo scenario di sopra è purtroppo una fotografia di buon senso, su cui l’esistenza o meno di un’imposizione sulla prima casa non è in grado di incidere materialmente (stiamo parlando di transazioni per alcune centinaia di migliaia di euro, se non per qualche milione, non per poche migliaia). In compenso parlare molto dell’Imu rischia di far passare in secondo piano l’esigenza, continuamente sottolineato da Confindustria (ma anche, sebbene con toni meno esasperati, dai sindacati), di ridurre in qualche modo il cuneo fiscale che grava sul lavoro. Qui sì che le cose sono serie: come ricorda Mario Seminerio, infatti, l’Irap è realmente una tassazione in grado di distorcere profondamente il mercato (in particolare del lavoro ma più in generale delle attività produttive) perché essendo proporzionale al fatturato e non all’utile deve essere pagata anche da imprese che chiudono il bilancio in rosso.
Se è evidente l’intenzione del legislatore di evitare che a pagare la tassa fossero solo le imprese “oneste” che chiudono in utile i propri bilanci e non trovano il modo di scaricare costi impropri per farlo chiudere in perdita, è altrettanto chiaro che in una crisi come l’attuale a finire tra incudine (della crisi) e martello (del fisco) sono soprattutto le piccole e medie imprese (Pmi), quelle stesse a cui la stessa Bce ammette che non è ancora arrivato alcuno “stimolo” in grado di alleviare il pesante credit crunch in atto da almeno due anni in tutta Europa (altrimenti non si capirebbe perché la Bce stessa stia cercando di riattivare il mercato del credito a loro favore pensando, ad esempio, se ammettere come collaterali per la concessione di prestiti alle banche anche prestiti e mutui cartolarizzati e non solo titoli di stato).
Peggio: siccome le Pmi sono le più legate al credito bancario, specie in paesi come l’Italia dove vuoi per arretratezza culturale, vuoi per ostacoli alla concorrenza da parte della lobby bancaria, vuoi ancora per eccessivo peso di burocrazia, malaffare e fisco (che deprimono il rendimento del capitale di rischio), non esiste ancora una sostanziale alternativa alle banche per la funzione di erogazione del credito (che in altri paesi è invece garantita da forme di crowdfunding, da fondi di private equity o da investitori di venture capital) e siccome la riforma Fornero che avrebbe dovuto rendere il mercato del lavoro più flessibile ha finito solo col facilitare l’uscita di migliaia di lavoratori dal mercato senza apportare particolari benefici sul fronte delle assunzioni, più si continuerà a perdere temo parlando di Imu, di calcio, del matrimonio di questa o quella subrette o del tempo e peggio sarà per i lavoratori e le aziende italiane.
Ma questo alla nostra classe “digerente” (di qualsiasi colore, va detto) non sembra causare particolari problemi, anche se, guarda caso, Fiat in questi giorni ha deciso di aumentare gli investimenti in Brasile, aprendo nuovi impianti e potenziando quelli esistenti. Avrà giocato un ruolo il peso del fisco, della giustizia lumaca e della burocrazia italiana o l’assenza dell’ Imu in Brasile, voi che ne dite? PS: va da sè che dato che il gettito Irap vale circa 37 miliardi chiunque proponesse di abolire questa imposta andrebbe rinchiuso in manicomio. Il problema sarà trovare nel caso tagli o riequilibri d’imposta in grado di imprimere al paese una spinta per ripartire e non l’ennesimo avvitamento verso il basso. Di questi tempi un’impresa tutto fuorchè facile.