Ci risiamo, verrebbe da dire. Ogni qual volta dal Governo centrale cominciano a filtrare le prime indiscrezioni su interventi per una riorganizzazione – razionalizzazione del pubblico impiego, in maniera pressocché immediata parte il tiro al piccione contro i dipendenti pubblici e di riflesso contro i sindacati. Nel solito calderone mediatico finiscono per omogeneizzarsi parole e concetti, così dipendente pubblico diventa automaticamente privilegiato e fannullone, mentre sindacato diventa inequivocabilmente sinonimo di casta. Ma tant'è ed è finanche inutile meravigliarsi della pletora degli indignati d'assalto, pronti a rintracciare nella casta dei fannulloni, difesa dalla casta dei reazionari sindacalisti (che tutelano solo i garantiti e odiano i precari tra l'altro), la radice di ogni male di questo Paese, la ragione profonda di tutti gli sprechi, le disfunzioni e i ritardi che poi rendono necessarie manovre ed interventi di correzione. Una campagna preconfezionata e buona per ogni stagione, che sostanzialmente serve solo ad alzare il livello dello scontro, ad ideologizzare la discussione e a creare tensione nell'opinione pubblica (facendo leva su un qualunquismo di bassissima lega).
Nel merito invece la discussione sarebbe persino interessante. E permetterebbe di scardinare tante "false impostazioni", tanti preconcetti e tanti falsi miti. Un esempio su tutti? La tanto decantata meritocrazia come metro di giudizio per le carriere dei dipendenti pubblici. In tal senso può essere utile rileggere le considerazioni (pur datate) di Oliveri su lavoce.info:
Un elemento che nei fatti priva di sostanza la ricerca della “meritocrazia” e della crescita di efficienza sta nella drastica riduzione delle spese per la formazione del personale pubblico, pari al 50 per cento di quanto investito nel 2009. La manovra (Brunetta ndr.) reintroduce pesanti tetti al turn-over, consentendo di sostituire solo il 20 per cento del personale cessato, ma contemporaneamente, dimezzando la formazione, impedisce di garantire una risorsa fondamentale per mantenere elevato il livello di competenza dei dipendenti, e supplire così alla diminuzione di quantità con una crescita della qualità del lavoro.
Insomma, chi spinge per meritocrazia, efficienza e qualità allo stesso tempo priva il settore delle risorse fondamentali per perseguire tali obiettivi. Ma c'è di più. Perché fare una seria discussione sul ruolo, sulle disfunzioni e sul criterio di valutazione dei dipendenti della pubblica amministrazione senza andare alla radice della questione è operazione parziale ed incompleta. Perché alla base di ogni ragionamento dovrebbe esserci la considerazione del male endemico che divora il nostro Paese, il cancro della corruzione e una distorta concezione del rapporto fra politica, istituzioni e cittadini.
E' la corruzione diffusa ad ogni livello ad aver spolpato le casse del Belpaese. Sono il malaffare, il nepotismo e il clientelismo le ragioni vere e profonde degli sprechi e delle disfunzioni del settore burocratico e amministrativo. E' il malcostume diffuso ad aver drenato risorse, è l'evasione fiscale a rendere necessarie manovre lacrime e sangue (per chi non lo sapesse dal lavoro dipendente arriva gran parte del gettito fiscale complessivo) e via discorrendo. Problemi complessi, certo. Così come è innegabile che esistano lacune e mancanze tra i dipendenti statali (frutto lo ripetiamo anche della corruzione e del clientelismo). Ma c'è un abisso da qui a rappresentare i dipendenti pubblici come antropologicamente diversi dal resto dell'umanità, come un branco di fannulloni parassitari che grava sul resto degli italiani onesti e laboriosi. Così come è fazioso e senza costrutto pretendere che il sindacato si dissoci dai comportamenti vergognosi di alcuni dipendenti pubblici (che ripetiamo, ci sono…così come ci sono già gli strumenti per contrastarli). Insomma, nessuno si opponga al rigore e all'equità, appunto. In ogni campo. E senza sparare nel mucchio, non ne abbiamo davvero bisogno.