La crisi? E’ solo finanziaria, per le industrie rappresenta opportunità. Può suonare strano ma per le maggiori aziende europee la crisi potrebbe essere un’ottima opportunità per fare shopping di concorrenti, marchi e brevetti a prezzi da saldo. Secondo gli analisti della banca d’affari Morgan Stanley, infatti, la posizione in termini di capitale sociale delle grandi corporation europee “al momento è forte”. I bilanci delle società non finanziarie, infatti, “stanno raggiungendo i migliori livelli degli ultimi vent’anni con una forte generazione di cassa”. Altro che industria in crisi, insomma: la crisi è nata e resta un fenomeno finanziario e non stupisce che sempre gli uomini di Morgan Stanley in un’altra ricerca diffusa anch’essa oggi presso la propria clientela istituzionale spiegano che per le grandi banche commerciali europee è tempo di decisioni strategiche, con i maggiori gruppi creditizi del vecchio continente che “stanno razionalizzando i loro portafogli e spostando quote di mercato”, mentre anche le modifiche legislative che stanno emergendo e la ripresa ciclica potrebbe “innescare significativi cambiamenti strutturali nel corso dei prossimi 12-24 mesi” per il settore del credito europeo. Lo trovate alquanto strano rispetto a quello che vi raccontano ogni giorno le maggiori testate giornalistiche italiane? Abituatevi, perché vista da fuori l’Europa (e l’Italia in particolare) appare sovente molto diversa da come viene rappresentata (anche per interessi di parte) dall’interno.
Aziende prudenti ma occasioni potrebbero non tardare a manifestarsi. Certo, anche gli analisti americani ammettono che finora “l’utilizzo del capitale (da parte delle grandi aziende europee, ndr) ha seguito una politica relativamente conservatrice in questo ciclo. I volumi (rispetto alla capitalizzazione di mercato) delle attività di fusioni e acquisizioni e di investimento in nuovi impianti e attrezzatura in rapporto alle vendite sono ben al di sotto dei livelli medi, mentre i rendimenti in termini di dividendi restano modesti”. Stiamo parlando, ribadisco, di grandi aziende europee, non di piccole banche italiane alle prese con la voracità delle proprie fondazioni-socie affamate di dividendi per “distribuire ricchezza” sul territorio, né di gruppi a conduzione familiare di cui è pieno il capitalismo “di relazione” italiano fatto di tanti salotti buoni pieni di debiti che prima o poi qualcuno pagherà (non gli imprenditori che siedono in tali salotti, di solito), eppure vale la pena di seguire il ragionamento di Morgan Stanley se non altro per capire quali occasioni rischiamo ancora una volta (sarò lieto di essere smentito dai fatti, naturalmente) di vederci passare davanti senza che né il mondo politico né imprenditoriale italiano sappiano come gestire gli interessi nazionali pubblici o privati che siano. Se l’attenzione negli ultimi anni è stata piuttosto incentrata (giustamente) sulla riduzione del debito e sul consolidamento del bilancio, “è probabile che le aziende (europee) diventeranno più attive nell’utilizzo delle loro risorse di capitale nel prossimo anno, assumendo che non accadano imprevisti rilevanti a livello macroeconomico” spiegano gli analisti americani. Insomma: se non ci sarà una nuova e severa recessione, il 2013 in Europa potrebbe essere l’anno della ripresa quanto meno delle attività di investimento e acquisizione da parte delle grandi corporation.
Niente operazioni colossali, tante piccole mosse per rafforzarsi. Non attendetevi però annunci colossali con fusioni “stellari” o investimenti di decine di miliardi di euro tutto a un tratto. Per gli uomini di Morgan Stanley le corporation europee aumenteranno da qui ai prossimi 12 mesi l’attività di investimento e acquisizione per rafforzarsi soprattutto sui mercati emergenti e “piccole acquisizioni sembrano per ora più probabili che grandi operazioni transnazionali”. Buone probabilità di vedere un certo fermento sembra esservi per settori come i servizi d’impresa, i beni strumentali, le materie prime, gli alimentari e bevande, la sanità, il petrolio e la tecnologia, mentre bassa probabilità di registrare operazioni di fusione o acquisizione sembrano ancora riguardare settori come quello dei materiali da costruzione, la distribuzione alimentare e la grande distribuzione e il settore assicurativo (alle prese con gli impegni legati al rafforzamento di capitale previsto dagli accordi di Solvency II che potrebbero risultare penalizzanti per le compagnie italiane, che come già le banche italiane appaiono meno solide secondo le metriche adottate che invece non sfavoriscono, ancora una volta, le concorrenti francesi e tedesche in egual misura).
I magnifici dieci. Secondo il report di Morgan Stanley, vi è almeno una decina di società in Europa che potrebbero fare la parte del leone nello scenario immaginato. Per selezionarle anzitutto gli esperti hanno compilato una lista di società con forti flussi di cassa ma senza debiti; poi hanno scelto aziende che avessero negli anni garantito in leverage (grado di utilizzo della leva finanziaria, ossia dell’indebitamento) di buona qualità, una buona “disciplina” degli investimenti in impianti e attrezzature e una crescita dei dividendi rispetto ai diretti concorrenti; infine hanno incrociato questi due gruppi con quello dei titoli tenuti d’occhio dagli analisti di private equity del gruppo americano e ne hanno ricavato una lista di dieci nomi che fossero presenti in almeno due delle tre liste di cui sopra. I nomi dei “magnifici dieci” che potrebbero animare la scena industriale e finanziaria europea nei prossimi mesi sono quelli di Autoliv, Daimler, Renault, Valeo, John Wood Group, Coloplast, Shire, Stmicroelectronics, Deutsche Post e Gas Natural. Come si vede l’unica “italiana” presente è l’italo-francese Stmicroelectronics, uno dei maggiori produttori al mondo di microchip; scorrendo tuttavia tutte e tre le liste prima ricordate si scorge qualche altro bel nome italiano come Luxottica e Prysmian (grazie ad una leva finanziaria ridotta, a dividendi elevati e a una buona disciplina degli investimenti), piuttosto che Indesit, L’Espresso, Danieli ed Eni, inserite nel portafoglio di titoli da “private equity” perché potrebbero attirare l’interesse di potenziali acquirenti di parte o tutte le loro attività (un portafoglio di cui fa parte pure Stm).
Cambiare l’Italia, ora o mai più. Non è molto ed è, temo, la conferma che questo disgraziato paese non si trovi a caso in una crisi grave come quella attuale, ma a causa di carenze imprenditoriali, dirigenziali, politiche e direi più in generale culturali e sociali che hanno eroso da decenni la capacità dell’Italia di rinnovare i “miracoli economici” degli anni Sessanta e Ottanta. Che poi scoppino polemiche perché lo ha ricordato espressamente il premier Mario Monti sottolineando come sia utopistico sperare che 5 mesi di provvedimenti (parziali e non necessariamente i migliori adottabili in assoluto) possano risolvere problemi e gap apertisi da 20 anni fa pensare che non solo la classe politica è tuttora inadeguata, ma anche la “società civile” non sia molto migliore se tale politici esprime e si limita a polemizzare sul fatto che alcuni ministri suggeriscano (orrore!) ai nostri figli di andare a cercare lavoro all’estero: non so a voi, ma a me pare un’ottima idea per mio figlio se nulla cambierà.