Altro che bamboccioni, ai giovani italiani abbiamo rubato il futuro
Pronti a qualsiasi cosa pur di lavorare. Pur di trovare un'occupazione, i giovani ventenni sarebbero disposti a rinunciare a diritti, contratti regolari, maternità, ferie e malattia. Questa è la preoccupante analisi che emerge dalla ricerca "Avere 20 anni, pensare al futuro" condotta da ACLI di Roma e provincia e CISL di Roma Capitale e Rieti in collaborazione con l'IREF e presentata stamane all'Università Sapienza di Roma. Secondo la ricerca, la maggioranza dei ragazzi romani nati negli anni '90 e ancor di più quella dei ragazzi nati dopo l'anno 2000 avrebbe un livello medio – alto di remissività lavorativa, ovvero il 65% dei giovani dichiara di essere pronto a rinunciare a qualsiasi diritto lavorativo pur di agguantare il tanto sospirato contratto – precario, of course – che possa permettere loro di avere un'entrata economica e un minimo di indipendenza dalle famiglie d'origine.
Alla domanda "quale sentimento associ al futuro?", gli intervistati – un campione di 1000 ragazzi tra i 16 e i 29 anni residenti a Roma e provincia – hanno risposto confusione (36%), precarietà (26,6%) angoscia (26,3%). Il 61,3% del campione, invece, ha risposto però anche speranza, mitigando un po' le risultanze della ricerca. Il senso di insicurezza che attanaglia i giovanissimi, però, è evidente e porta i ragazzi a dichiarare di essere disposti a rinunciare a numerose garanzie lavorative pur di trovare o mantenere un'occupazione: il 28,2% direbbe addio ai giorni di malattia, il 26,6% alle ferie, l'11,1% alla maternità. Inoltre, il 30,3%, ha dichiarato che non avrebbe difficoltà ad accettare un impiego che non corrisponda al proprio corso di studi.
A livello nazionale queste stesse caratteristiche rilevate dalla ricerca di Acli Roma erano a suo tempo state evidenziate dal rapporto Censis dell'ottobre 2015:
"Due milioni e trecentomila Millennials – i giovani di 18-34 anni – svolgono un lavoro di livello più basso rispetto alla propria qualifica (sono il 46,7% di quelli che lavorano, rispetto al 21,3% dei Baby Boomers di 35-64 anni). Un milione di Millennials ha cambiato almeno due lavori nel corso dell'anno, 1,2 milioni dichiarano di aver lavorato in nero negli ultimi dodici mesi, 1,8 milioni hanno svolto lavoretti pur di guadagnare qualcosa, 1,7 milioni nell'ultimo anno hanno lavorato con contratti di durata inferiore a un mese, 4,4 milioni hanno fatto stage non retribuiti. Pur di entrare nel mondo del lavoro e ‘stare in partita', tanti Millennials si accontentano di impieghi lontani dal loro percorso di formazione, anche in nero".
Un quadro per certi versi non solo sconfortante, ma che fa anche a pugni con le poco edificanti descrizioni che siamo soliti leggere sul giornali, che ritraggono i giovani italiani come ragazzi privi di forza di volontà, di voglia di lavorare, mammoni, choosy e presuntuosi. Insomma, dei bamboccioni, come vennero definiti anni fa dall'ex ministro Padoa Schioppa.
Una recente ricerca dell'Istat, pubblicata a fine settembre, sosteneva per esempio che sette milioni di persone, ovvero "il 62,5% dei giovani tra 18 e 34″, preferiscono condividere la casa con mamma e papà, anche se hanno un lavoro. In molti, basta fare una breve ricerca su Google, presentando i dati Istat hanno titolato: "In Italia 7 milioni di bamboccioni". Nonostante la ricerca Istat proseguisse dicendo "anche perché se nel 35,5% dei casi si tratta di studenti e il 29,7% è formato da disoccupati, c'è un 31,8% di giovani che preferisce vivere con mamma", si è subito gettata la croce del mammone sulle spalle dei giovani italiani, evitando di approfondire ulteriormente la tematica: ma per quale motivo i giovani italiani preferiscono stare a casa con mamma è papà? Non sarà che non sono poi tutti così bamboccioni, ma ci sono problemi più profondi alla radice?
Effettivamente sì, ci sono svariati problemi alla radice. La ricerca “Poorer than their parents? Flat or falling incomes in advanced economies”, condotta dal McKinsey Global Institute, ha analizzato 25 economie avanzate del Mondo e rilevato che su 580 milioni di persone, 540 hanno visto calare o stagnare la propria disponibilità rispetto al 2005. Scendendo nel dettaglio e andando ad analizzare la situazione europea e italiana, McKinsey rileva inoltre che "in Europa occidentale scontiamo ancora gli effetti della crisi finanziaria del 2008, che ha portato alla recessione più grave e duratura dal dopoguerra" e "le politiche di rigore nella gestione della spesa pubblica adottate in risposta alla crisi, con l’aumento della pressione fiscale e la riduzione dei piani di welfare, hanno ulteriormente aggravato la situazione in alcuni paesi, e fra questi l’Italia".
A spiegare le cause di questo divario tra le generazioni dei padri e quella dei figli è un rapporto di Bankitalia datato 2015: "L’indebolimento, dagli anni Novanta, dell’economia italiana ha gravato in particolare sui più giovani: sono aumentate le opportunità di ingresso nel mercato del lavoro, ma le carriere lavorative sono diventate più intermittenti e i livelli retributivi iniziali inferiori a quelli dei coetanei di generazioni precedenti, nonostante il più alto livello di istruzione. Secondo i dati dell’Inps, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio del decennio scorso, la retribuzione settimanale d’ingresso è diminuita, in termini reali, di circa un quinto; il calo non è stato accompagnato da progressioni retributive più rapide".
Nel marzo del 2016 un'inchiesta del quotidiano The Guardian ha rivelato che in Italia tutte le fasce d'età dai 20 ai 44 anni hanno redditi sotto la media nazionale, mentre le uniche ad aver migliorato la loro condizione rispetto al 1986 sono le fasce dai 50 ai 79 anni. Inoltre, stando ai rilievi di The Guardian, in Italia gli under 35 sono con gli anni via via diventati in media più poveri dei pensionati under 80.
Non solo: nell'aprile del 2016, il presidente dell'Inps Tito Boeri lanciò un allarme e dichiarò che i giovani della cosiddetta generazione 1980 i giovani della cosiddetta generazione 1980 – ovvero tutti i nati dal 1980 in poi – rischiano di andare in pensione solo dai 75 anni in su. Per quale motivo? Sempre a causa della precarietà lavorativa. Stando alla vigente riforma pensionistica entrata in vigore nel 2011 sotto il Governo Monti, l'eccessiva discontinuità contributiva unita ai bassi stipendi percepiti dai trentenni odierni costituisce una forte penalizzazione in sede di calcolo pensionistico, provocando quindi un sensibile allontanamento dell'età pensionabile.
Insomma, nonostante i giovani si dichiarino pronti a rinunciare a quelli che vengono definiti da molti diritti acquisiti e inalienabili pur di trovare o tenersi un lavoro, nonostante l'alta percentuale di giovani italiani occupati che ancora vive a casa con mamma e papà possa essere ampiamente spiegata facendo riferimento al precariato con cui devono scontrarsi e convivere ogni giorno per anni, nonostante percepiscano i redditi più bassi d'Europa di cui devono accontentarsi pur di avere un'occupazione e debbano con questi far fronte a un alto costo della vita che rende difficile essere indipendenti senza alcun aiuto, non è raro che i giovani vengano tuttora bollati come bamboccioni. Alla luce dei dati, però, una domanda sorge spontanea: ma bamboccioni a chi?