Acqua, il bene comune più prezioso del petrolio in mano alle multinazionali? (INCHIESTA VIDEO)
L’acqua è la madre di tutta la vita sulla Terra, è il bene comune per eccellenza e numerose direttive europee lo sanciscono come diritto fondamentale di ogni uomo. Senza acqua non c’è vita, senza acqua non c’è nulla. Il nostro pianeta è ricoperto per più del 70% della propria superficie dalle acque, nonostante ciò diventa un bene sempre più raro e prezioso. Complice il riscaldamento globale e la progressiva desertificazione di numerose zone del mondo, l’oro blu diventa una merce difficile da trovare. L’acqua dolce e potabile è molto poca e con l’esaurirsi delle riserve di petrolio, multinazionali e mercati cercano una nuova merce da accumulare e rivendere a caro prezzo. In Italia, il Parlamento ha approvato nel 2008 il cosiddetto “decreto Ronchi” con il quale si sancisce che l’acqua è un bene a rilevanza economica e che per questo può essere gestito da aziende private che possono trarne profitto.
Domenica 12 e lunedì 13 giugno, gli italiani sono chiamati per votare ai referendum 2011. Tra i quattro quesiti referendari, ben due riguardano la privatizzazione del “servizio idrico”. Gli elettori sono chiamati a pronunciarsi sull’abrogazione di alcuni articoli del decreto Ronchi e del codice dell’Ambiente che permettono ai privati la gestione delle riserve pubbliche come l’acqua. Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica ha raccolto nei primi sei mesi del 2007 mezzo milione di firme a difesa dell’acqua come bene pubblico. Ma è davvero un male che i privati entrino nella gestione dei servizi idrici e quali sono stati gli effetti di tali affidamenti fino ad oggi?
– I quesiti referendari
– Monopolio naturale o libera concorrenza?
– La gestione privata dell’acqua, qualche esempio
– La gestione privata in Campania: la Gori s.p.a.
I quesiti referendari sono due e riguardano la possibilità dei privati di ricevere in affidamento servizi pubblici di rilevanza economica, come la gesione del servizo idrico, e la possibilità di trarre profitto dagli stessi. Il primo quesito, scheda rossa, riguarda a cosiddetta “abrogazione della privatizzazione dell’acqua”. In realtà, il titolo completo del quesito è “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica” e con il sì viene abrogato l’art. 23 bis della Legge n. 133 del 2008 – meglio conosciuta come “decreto Ronchi”.
Il secondo quesito, scheda gialla, riguarda l’abrogazione parziale dell’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152 del 2006 e impedisce, in caso di vittoria del sì, che i privati possano trarre profitti dalle tariffe stabilite per il servizio idrico. In realtà, le cose sono più complesse della semplificazione binaria con cui viene trattata la materia, tanto dal fronte del sì che da quello del no ai referendum. Il primo quesito riguarda il cosiddetto “decreto Ronchi”, che all’art. 23 bis non prevede affatto la “privatizzazione dell’acqua”. L’acqua, in quanto bene, rimane pubblica e demaniale assieme agli acquedotti. L’articolo della Legge stabilisce la possibilità di “privatizzazione per il servizio idrico”, ovvero la gestione e la manutenzione delle infrastrutture che forniscono l’acqua alle abitazioni.
In Italia, il servizio idrico è affidato ai Comuni, i quali devono associarsi negli ATO (Ambiti Territoriali Ottimali) per razionalizzare la gestione della risorsa. Un ATO è un territorio in cui sono organizzati servizi pubblici integrati, individuati dalle Regioni con un’apposita legge tenendo conto – nel caso del servizio idrico – della morfologia del bacino idrografico. Le Autorità d’Ambito che operano sulle ATO hanno il compito di garantire l’ottimale approvvigionamento di acqua potabile, con particolare attenzione alla sua qualità e alla salvaguardia delle risorse idriche. Infine, devono tutelare il consumatore a fronte del regime di “monopolio naturale” in cui operano i gestori del Servizio Idrico. In virtù della Legge n.42 del 26 marzo 2010, gli Ato sarebbero dovuti essere aboliti nel marzo 2011.
Il decreto Ronchi prevede che gli ATO debbano affidare la gestione del servizio idrico in concessione attraverso una gara d’appalto aperta alle aziende private e a quelle pubbliche, nonché a quelle miste a capitale pubblico-privato (PPP). L’art. 23 bis non privatizza automaticamente il servizio idrico, ma permette alle aziende private di concorrere tramite gara alla concessione della sua gestione. Già oggi, il 5% delle società che gestiscono il servizio idrico è privato, mentre il 36% è a capitale misto pubblico-privato (a maggioranza pubblico). La gran parte delle società di gestione del servizio idrico è a capitale pubblico.
Coloro che sostengono il “sì” al primo quesito referendario, come padre Alex Zanotelli – missionario comboniano da anni in prima linea contro la privatizzazione dell’acqua – sostiengono che il referendum sancirà un principio importante, ovvero che l’acqua è un bene a non rilevanza economica e che deve essere gestito da società pubbliche.Viceversa, chi sostiene il “no” vuole che i privati possano farsi carico della gestione del servizio idrico, in modo da renderlo più efficente e diminuire gli sprechi (che secondo il Rapporto sullo stato dei servizi idrici 2009 ammontano a più del 34% del totale di acqua erogata).
Il secondo quesito referendario propone l’abrogazione del comma 1 dell’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 (il cosiddetto “Codice dell’Ambiente” promulgato dal governo Prodi). Dall’articolo viene eliminata la parte riguardante la “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, la norma prevede infatti che la tariffa che i cittadini dovranno pagare al gestore del servizio idrico potrà contemplare una “remunerazione per il capitale investito” (ovvero un profitto) pari a massimo il 7% del totale. Inoltre, non vi sono vincoli che obblighino l’azienda a reinvestire il profitto conseguito per il miglioramento della qualità del servizio. Le tariffe, per legge, dovrebbero contemplare soltanto i costi del servizio, in quanto l’acqua in sé non ha valore economico. Sono gli ATO a definire le tariffe entro i tetti massimi definiti per legge.
Il quesito referendario propone di eliminare la possibilità di conseguire profitto dalle tariffe, questo comporterebbe la fine degli investimenti privati nel settore idrico. Per i sostenitori del sì, questa è una condizione auspicabile: come afferma padre Alex Zanotelli, anche se è legittima l’ambizione del privato di conseguire profitti, ciò non può avvenire per un bene pubblico come l’acqua. Il motivo è che, in caso di inadempienza ai pagamenti, il privato – per minimizzare le perdite economiche – sarebbe costretto a negare la fornitura di acqua ai cittadini che non pagano. Inoltre, un’azienda pubblica – a differenza di un privato – è vincolata a reinvestire l’attivo conseguito dalle tariffe percepite nel miglioramento del servizio.
L’ingresso dei privati nella gestione del servizio idrico è auspicato dai sostenitori del decreto Ronchi, che per spiegare la giustezza della norma si rifanno alla maggiore efficenza dell’imprenditoria nella fornitura di servizi. La situazione della rete idrica italiana fotografata dal Rapporto sullo stato dei servizi idrici del 2009 è drammatica: oltre il 34% dell’acqua erogata dalla società viene sprecata, ovvero si disperde nell’ambiente a causa delle cattive condizioni in cui versano tubature e collegamenti. Per i sostenitori del “no” ai due referendum sull’acqua pubblica, soltanto i privati hanno i capitali da investire per la manutenzione della rete idrica, mentre gli enti locali sono pieni di debiti e non possono garantire un’adeguata opera di risistemazione delle condutture. Da questo punto di vista, ci si rifà alla regola aurea del libero mercato: in condizioni di concorrenza perfetta, il servizio fornito è il migliore possibile a fronte del minor costo.
Questo punto di vista è contrastato dai detrattori del decreto Ronchi e del codice dell’Ambiente come Zanotelli. La gestione del servizio idrico avviene in condizioni di monopolio naturale, ovvero un solo gestore alla volta ha il controllo totale di tutte le fasi di fornitura del servizio. La Costituzione italiana, ricorda Alberto Lucarelli – docente ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università Federico II – disciplina i monopoli naturali all’art. 43 e permette la loro gestioni a soggetti pubblici, in quanto si tratta si settori in cui non c’è concorrenza nel mercato. Nel caso del servizio idrico, per avere una libera concorrenza, bisognerebbe avere diverse condutture in casa che permettano agli utenti di scegliere a quale società abbonarsi per ricevere il servizio meno costoso e di migliore qualità.
Secondo Alberto Lucarelli, il decreto Ronchi è il frutto di un processo che comincia negli anni Novanta in Italia con l’idea di far occupare ai privati tutti i settori in cui non vige concorrenza. A fronte della riduzione di altri settori, come quello del petrolio, si cercano nuovi monopoli naturali in cui fare profitti sicuri. In questo momento si intrecciano finanza, economia e politica in cui si “gioca a fare il privato con le risorse pubbliche, in cui non si rischia nulla e si accapparrano risorse di cui nessuno può essere proprietario” – afferma Lucarelli. Il Decreto Legislativo 112 del 2008 viene approvato con decreto legge nei primi giorni di agosto, in tutta fretta e segretezza a causa della pressione generata dai movimenti sorti in tutta Italia per l’acqua pubblica, che avevano raccolto un record di firme per una legge di inziativa popolare che sancisse l’acqua quale bene comune.
In realtà, il decreto Ronchi prevede che siano gli enti locali ad affidare la gestione del servizio alle società che presentano i progetti di gestione migliori tramite gara pubblica. Per il fronte del “no” al referendum, grazie al bando di gara pubblico verrà scelta dagli enti pubblici la società che fornirà il servizio migliore al minor costo possibile.
Ora non resta che da chiedersi se in altri paesi del mondo questo tipo di affidamento ha funzionato e se la qualità/prezzo del servizio sia migliore che in una gestione pubblica. Sarà un caso, ma Parigi – una delle prime città ad affidare la gestione dell’acqua alla società privata Veolia – è tornata sui suoi passi. Stessa cosa è accaduta in Germania, dove un altro referendum popolare ha sancito il ritorno alla gestione pubblica del servizio idrico. Ci sono esempi anche in Italia che dimostrano come la qualità e i costi del servizio fornito dai privati siano peggiori rispetto a quelli pubblici. Basti pensare a ciò che accade a Latina, dove Veolia controlla la società partecipata che fornisce il servizio idrico: Acqualatina SpA. Negli ultimi, anni il costo della tariffa è aumentato del 300%, a fronte di allarmanti dati diffusi da Federconsumatori sulla presenza di arsenico nelle acque.
Consiglia Salvio, responsabile del coordinamento della Campania del Forum Nazionale dei comitati per l’acqua pubblica, afferma che dal’approvazione della Legge Galli del 1994, che ha introdotto la gestione dei privati nei servizi pubblici, non vi è stata l’auspicata razionalizzazione del servizio idrico italiano. Anzi, il privato avrebbe diminuito del 65% gli investimenti per la riqualificazione delle reti idriche e aumentato le tariffe, senza aumentare la qualità delle acque. Sono numerosi i comuni in deroga per i livelli di sostanze nocive nelle acque.
In Campania, nell’ATO3 del Sarnese Vesuviano, la gestione del servizio idrico è affidata alla privata Gori SpA – società nata a inizio degli anni 2000 in attuazione della Legge Galli. Il bacino idrico comprende 76 comuni che dalle falde del Vesuvio arrivano fin a Sorrento. Giuseppe Grauso, responsabile di Federconsumatori Nola, denuncia che la società privata presenta bilanci in rosso – sopratttutto negli ultimi anni di gestione – e che richiede all’Autorità d’Ambito di poter aumentare le tariffe per l’utenza. Un incremento medio del 30% nel 2011, soprattutto per quanto riguarda i consumi essenziali di acqua, che va di pari passo con l’aumento della percentuale di privato all’interno delle quote societarie di Gori: se alla sua creazione soltanto il 19% è affidata (a chiamata diretta), al giorno d’oggi la porzione è arrivata al 49%. Come sottolinea il prof. Alberto Lucarelli, questa forma di gestione crea soltanto l’illusione della pubblicità: per mancanza di trasparenza e difficoltà di controllo sulla società, ci si trova di fronte a una vera e propria organizzazione privata.
Un servizio tanto costoso cozza con i dati rilevabili dal Rapporto sullo stato dei servizi idrici del 2009, che nell’Ato3 Campania stima una dispersione di circa il 51% dell’acqua erogata alle condutture, indice di uno scarso grado di manutenzione delle stesse. A fronte di un volume immesso di 175.693.829 metri cubi di acqua, il volume fatturato è di appena 85.605.678 metri cubi. Appena la metà, inoltre la qualità delle acque non è per nulla ottimale – come conferma Consiglia Salvio – poiché nei comuni dell’area vesuviana sono in vigore deroghe per la presenza nei liquidi di alti livelli di fluoruro, nitrati e nitriti. Inoltre, sono molti i comuni dell’Ato3 che sono ancora senza fognature ed è dovuta interevenire la magistratura (sentenza 335 del 2008) per consentire loro di non pagare in bolletta questo servizio assente.
Gli aumenti tariffari richiesti nell’ATO3 sono compresi tra il 29% e il 55%, incidendo maggioramente su quelli che sono definiti “consumi domestici essenziali” e soltanto in minor parte sui “consumi domestici normali” (i cui aumenti sono tra il 7,3% e il 29%). In pratica, gli aumenti colpiscono maggiormente i consumi strettamenti necessari alla sopravvivenza, mentre gli sperchi non vengono intaccati più di tanto.
La Gori SpA dichiara che in sette anni di gestione ha accumulato un passivo di 125.237.807€ a fronte di costi annui pari a 130.000.000€ – che non sono mai coperti dagli introiti derivanti dalle tariffe percepite. Federconsumatori Nola e Sel Area Nolana sottolineano come, a giudicare da ciò che è riportato nel Bilancio della Gori SpA, ci siano scarsi controlli sui costi di “svalutazione crediti” (pari a 3.456.295€) e sui costi per i “Servizi”, la voce più pesante in bilancio con 56.935.888€ utilizzati in remunerazioni professionali e opere di soggetti terzi, esterni all’impresa – una catena di sub-appalti che riguarda anche le opere di manutenzione ordinaria, che dovrebbe essere garantita dalla stessa Gori. Alcune scelte econimiche hanno inficiato la gestione ecomica del colosso fin dall’inizio della sua attività, come le politiche di assunzione: la Gori ha 760 dipendenti, mentre i piani d’ambito imponevano di averne meno di 700. A queste si aggiunge la creazione di numerosi società dipendenti e controllate al 100% dalla Gori, che comportano ulteriori costi. Tutto questo in un contesto in cui i dipendenti degli acquedotti comunali non sono stati assunti nella Gori, quindi vi è uno sdoppiamento dei costi per i cittadini: da una parte, cone le tasse finanziano gli acquedotti, dall’altra con la bolletta dell’acqua pagano i dipendenti della Gori.
Per ripianare il disavanzo di bilancio del 2008, denuncia Consiglia Salvio, la Gori aveva rincarato su ogni utenza un addebito anticipato, definito tecnicamente “ADAN”, di 50€. La somma totale di questo addebito serviva totalmente a ripianare il debito, ma un movimento di sindaci e comitati cittadini ha scoperto che il gestore non aveva il diritto di chiedere questa somma a tutti gli utenti, in quanto era un addebito da applicare soltanto sulle nuove utenze.
Come conferma Giuseppe Grauso, in paesi come Nola, le tariffe per il servizio idrico sono già aumentate notevolmente, insieme a iniziative coatte contro le famiglie che non riescono a pagare la bolletta dell’acqua. Nonostante sia un bene essenziale, numerose volte la Gori ha provveduto al distacco del servizio idrico. Soltanto con l’intervento della Federconsumatori si è riusciti a ottenerne il ripristino. Secondo i responsabili dell’associazione a tutela dei consumatori, si tratta di un vero e proprio metodo “ricattatorio” per la riscossone dei debiti. Sarebbe questa l’efficenza dei privati?