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Opinioni

A proposito di Bce, Grecia e lavoro

Dopo continui rinvii sembra avvicinarsi la conclusione della telenovela greca. Ma il futuro che si prospetta all’Eurozona non è così rassicurante, occorre interrogarsi sulle alternative e assumere scelte consapevoli.
A cura di Luca Spoldi
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Mario Draghi, Bce

Sembrava destinata ad essere una conferenza stampa piuttosto noiosa quella con cui oggi Mario Draghi doveva commentare la decisione (ampiamente scontata) della Banca centrale europea di confermare i tassi sull’euro all’1%, senza annunciare ulteriori novità in tema di misure “straordinarie” posto che già è in cantiere, entro fine mese, una seconda Ltro (operazione di rifinanziamento a 3 anni all’1%, già effettuata una prima volta a dicembre per quasi 500 miliardi) con la quale, dopo aver scongiurato il peggio (ossia un probabile e marcato “credit cruch” che comunque in parte ha già colpito le famiglie e le piccole e medie imprese italiane ed europee), la Bce si augura le banche possano non solo riacquistare ulteriori propri bond e titoli di stato (contribuendo così a ridurre la pressione sui mercati in termini di tassi e spread e quindi l’onere per il rifinanziamento del debito pubblico in capo a ciascuno stato europeo), ma anche ridare fiato all’economia.

Invece è arrivata la notizia bomba, quando Draghi (che oggi festeggiava il suo 101esimo giorno ai vertici di Eurotower) ha annunciato di aver ricevuto in mattinata una telefonata da parte del premier greco Lucas Papademos che lo ha informato di un accordo raggiunto coi leader dei maggiori partiti su un pacchetto di misure di austerity che dovrebbe sgombrare la via per l’ok al secondo pacchetto di aiuti internazionali al paese da 130 miliardi di euro. Lo stesso accordo che per 300 milioni di euro (su un totale di 3,3 miliardi di euro di tagli) non era stato raggiunto ieri notte e che aveva fatto temere l’ennesimo slittamento di ogni possibile soluzione, anche parziale, alla crisi. Che la soluzione resti parziale non v’è peraltro dubbio visto le fortissime tensioni sociali che scuotono la Grecia (dove da domani parte un altro sciopero generale di 48 ore), inevitabili in un paese con una disoccupazione che ormai sfiora il 21% e dove le misure di “rigore fiscale” stanno provocando una caduta del Pil anziché una sua crescita e rischiano di portare nelle prossime settimane agenzie di rating come Standard & Poor's ad esprimere nuovi dubbi sulla sostenibilità della soluzione proposta (si accettano scommesse).

Decrescita marcata e tutt’altro che “felice” come qualche bello spirito continua a vaneggiare si possa un giorno ottenere in tutta Europa, anzi in tutto l’Occidente, meglio in tutto il mondo (senza ovviamente tener conto della sorte di 15 miliardi di individui) ma che risponde a quella che in una lucida analisi molti colleghi, da ultimo Alessandro Fugnoli (strategist di Kairos Partners) hanno spiegato essere la vera soluzione sul lungo termine della crisi (in mancanza di idee migliori): una deflazione interna più o meno forte nei paesi del Sud Europa accompagnata a una moderata inflazione nei paesi del Nord Europa.

In soldoni, il problema di questi anni, come ho ricordato più volte, è dovuto non solo al fatto che alcuni stati hanno truccato i conti (la Grecia), che altri hanno “pompato” bolle speculative immobiliari (la Spagna), che c’è stata poca crescita reale (in Portogallo e in Italia) e molta crescita unicamente finanziaria (in Irlanda), ma agli squilibri interni all’Eurozona che la mancanza di un’unità politica del vecchio continente ha reso alla lunga insostenibili. Dal 2000 al 2008 (quando il collasso di Lehman Brothers ha improvvisamente aperto gli occhi agli investitori di tutto il mondo sui rischi di un utilizzo eccessivo del debito come motore di sviluppo “infinito” di utili e fatturato/Pil) in sostanza il Nord Europa vendeva al Sud Europa che acquistava merci e servizi indebitandosi sia con l’Unione Europea sia col resto del mondo. Nel frattempo, ha ricordato Fugnoli, i salari aumentavano solo del 20% in Germania, del 30%-40% in Spagna e Italia, del 90% in Grecia: con più soldi in tasca i greci (e gli spagnoli e gli italiani) spendevano sempre più allegramente, l’economia girava sempre più velocemente, il settore immobiliare faceva la fortuna di pochi (e preparava seri guai per molti negli anni a venire). Finchè la giostra non si è rotta.

Invertire di segno il processo richiederà per alcuni (la Grecia) una medicina molto amara fatta di salari reali in calo, tariffe in crescita, ondate migratorie che porteranno molti a cercare lidi migliori (in America o in Asia) e con le loro rimesse dall’estero a dare una mano a chi resterà in patria. Per altri (Italia e Spagna) a consumi moderati per non dire stagnanti, a una moderazione salariale obbligatoria (che peserà tanto più sui lavoratori dipendenti in quanto anche il mercato del lavoro è destinato a rimanere debole per anni) e alla necessità, in parallelo a un'emersione del “nero” e una lotta all'evasione i cui risultati sono ad oggi difficili da stimare, di tornare a investire in istruzione per offrire un futuro migliore se non all’attuale generazione, la nostra, almeno a quella nostri figli.

E’ uno scenario da dopoguerra, per certi versi, cui ci stanno condannando la malagestione degli ultimi decenni (per l'Italia e i paesi del Sud Europa) oltre all'ottusità e inadeguatezza della classe politica europea (e tedesca in particolare) ed in cui occorrerà stare attenti non solo a non eccedere in un controproducente (quando eccessivo) rigore fiscale, ma anche che la mistica della “qualità”, della “eccellenza” e della “originalità” non favorisca l’insorgere di nuove barriere basate (oltre che sul capitale e sulle relazioni) sulle competenze destinate non ad arricchire il paese e ad offrire a tutti migliori prospettive di vita, ma solo ad ampliare ulteriormente la distanza tra i pochi fortunati ai vertici della piramide e la massa di poveri “sfigati” destinati a vivere vite “ordinarie” per non dire medie, per non dire mediocri, sia per mancanza di possibilità economiche che di stimoli culturali o semplicemente di capacità personali.

L’ho scritto ieri e lo ripeto: parlare di spread, di tassi, di crisi del debito sovrano in astratto è un esercizio retorico che lascio ad altri, vorrei semmai stimolare una riflessione sul futuro del lavoro (o sul lavoro del futuro) in quanto ritengo sia uno strumento di crescita sociale (e individuale) imprescindibile e trovo dunque pericolosa la prospettiva che oggi ci viene presentata che ci si debba abituare a non lavorare per tutta la vita (o meglio a lavorare per tutta la vita ma in modo discontinuo e rischiando sempre e solo di inseguire una tranquillità destinata a rimanere una chimera per buona parte di noi). In tutto questo ci sarebbe moltissimo da dire sulla possibilità che la tecnologia, se la si saprà sviluppare e padroneggiare, possa consentirci di trovare soluzioni meno traumatiche, così come molto sarebbe da dire sulla necessità di considerare il quadro d’insieme (che come ha ricordato ancora oggi Mario Draghi è per l’Eurozona nel suo complesso molto più equilibrato che non per gli Stati Uniti o il Giappone, i quali però sono appunto entità politiche oltre che economiche). Se continuerete a seguirmi e offrirete spunti e commenti sarò felice di farlo nel proseguo di queste mie riflessioni aperte al contributo di tutti voi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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