Non è solo la politica italiana a sembrare ancorata ad un passato sempre più sbiadito ma da cui evidentemente tanto le elite al governo quanto quelle all’opposizione faticano a separarsi. Se osservate i gruppi che in questi mesi finiscono puntualmente sotto i riflettori a Piazza Affari, vi renderete conto di come l’aria sia alquanto stantia anche sul mercato azionario di Milano, dove i nomi “che contano” sono sempre gli stessi e le famiglie di riferimento non mutano da decenni.
Prendete la giornata di lunedì 3 ottobre: tra i titoli del comparto industriale tengono banco le ultime notizie di Fiat, società controllata dalla famiglia Agnelli che conferma l’uscita da Confindustria e precisa di voler iniziare a istallare l’anno prossimo gli impianti per la produzione di un Suv a marchio Jeep a Mirafiori confermando anche la produzione dell’Alfa Romeo Mito, mentre “sul Suv Alfa non abbiamo ancora deciso” – spiega l’amministratore delegato Sergio Marchionne – se farlo o meno. Ma nel caso “se si fa, si fa a Mirafiori”.
Il titolo però, nonostante buone notizie dagli Stati Uniti (dove la controllata Chrysler segna +27% nelle immatricolazioni di settembre a quota 127.334 vetture, contro il -4,7% segnato dal gruppo Fiat in Italia con appena 42.538 vetture) il titolo perde terreno perché la sensazione è che il gruppo sia indietro nel rinnovo della gamma come pure nel piano che prevede il ritorno del Biscione negli States, mercato da cui il marchio Alfa Romeo è ormai assente dal 1994 (e sul quale salvo qualche manciata di 4C e di Mito a 5 porte, attese per l’anno venturo, sarà difficile vedere un numero significativo di vetture vendute prima del 2013-2014). Non avete una sensazione di già visto, già sentito? Non vi sbagliate.
Altro giro, altro nome “noto”: tra i finanziari si mette in luce con un balzo di quasi 10 punti percentuali il titolo Fondiaria-Sai, ma nessuno sa esattamente spiegare il perché. La compagnia assicuratrice appartiene alla famiglia Ligresti, una “potenza” del capitalismo famigliare italiano sin dagli anni Sessanta, tra gli azionisti di Mediobanca assieme ad altri “bei nomi” come gli stessi Agnelli, da tempo in difficoltà a causa dell’indebitamento accumulatosi e delle incertezze del mercato immobiliare (il gruppo è dovuto uscire di recente dal progetto CityLife relativo alla riqualificazione dell’ex area della Fiera di Milano, cedendo le proprie quote a Generali). Difficoltà che hanno portato ad un cambio di management e all’avvio di un progetto di dismissioni che sta iniziando a dare i suoi frutti.
Sempre tra i finanziari, ma in questo caso tra le banche, resta sotto i riflettori il titolo Banca popolare di Milano, che dopo il +13,8% segnato venerdì ha aperto guadagnando rapidamente fino ad altri sei punti percentuali, prima di invertire la rotta e sfiorare il 10% di perdita, per poi chiudere a -6%. In questo caso al di là dell’andamento del business tiene banco la “saga” che ruota attorno al rinnovo della governance (destinata a diventare “duale”, sempre che le modifiche statutarie ricevano il via libera della Banca d'Italia dopo le critiche degli azionisti di minoranza non soci, per i quali i sindacati interni continueranno a detenere troppo potere) e ad un aumento di capitale da 800 milioni di euro che il mercato (oltre alla stessa Banca d’Italia) sembra ritenere necessari per rafforzare patrimonialmente l’istituto (che intanto ha varato una semplificazione del gruppo accorpando la controllata Cassa di Risparmio di Alessandria in Banca di Legnano) e che potrebbe vedere l’ingresso del fondo Sator di Matteo Arpe (classe 1964, ex enfant prodige della finanza italiana, già direttore centrale di Mediobanca, poi in Lehman Brothers e infine in Capitalia, di cui fu amministratore delegato dal 2003 al 2007), che però pare inviso a Mediobanca, che assiste Bpm nell’operazione di aumento di capitale.
Oppure del fondo Investindustrial (che in serata ha precisato su richiesta della Consob di detenere il 2,673% del capitale di Bpm, avendo acquistato 11,095 milioni di azioni) che godrebbe dell’appoggio di Mediobanca e che fa capo a quell’Andrea Bonomi nipote di Anna Bonomi Bolchini, la “signora della finanza italiana” a cavallo degli anni Sessanta-Ottanta, già figlia del costruttore Carlo Bonomi, la cui Beni Immobili Italia costruì tra gli altri il “Pirellone” a Milano e le prime città-satellite come Milano San Felice (per poi diversificare con società come Saffa, Mira Lanza o Postalmarket fino a rilevare quote di banche e assicurazioni come la Milano Assicurazioni e La Fondiaria, finendo al centro della controversa scalata promossa da Mario Schimberni, a metà degli anni Ottanta amministratore delegato di Montedison, poi “licenziato” dalla Mediobanca del suo ex mentore Enrico Cuccia, che contro scalò la stessa Montedison). O ancora, chissà, del fondo di private equity Clessidra fondato e gestito da Claudio Sposito, ex banchiere d’affari a capo delle attività italiane di investment banking di Morgan Stanley e poi per 10 anni amministratore delegato di Mediaset, che però negli ultimi giorni è apparso molto prudente.
Agnelli, Ligresti, Mediobanca, Fondiaria, Bonomi, Bpm: i nomi dei singoli manager o banchieri tendono a variare ma a Piazza Affari continuano ad andare in scena piccoli e grandi drammi che hanno per protagonisti le stesse “grandi famiglie” e i loro intermediari di riferimento da decenni. Di questo passo, vista anche la modesta crescita che da almeno 15 anni registra l’economia italiana nel suo complesso e l’accelerazione che invece hanno segnato le economie “emergenti” di paesi come Cina, India, Russia o Brasile, è difficile pensare che per il listino milanese possa esserci un ruolo meno che marginale nel panorama finanziario ed economico mondiale del futuro.