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A chi fa male una “bad bank” e perchè?

Chi ha paura delle “bad bank” e quanto possono far male? Tutto dipende dalla determinazione del valore residuo di prestiti ormai in larga parte inesigibili…
A cura di Luca Spoldi
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Quanto sono cattive le “bad bank”? In Italia se lo chiedono un po’ tutti, dai grandi quotidiani ai sindacati, dai politici agli imprenditori da qualche giorno, ciascuno dando una propria interpretazione. Ma di cosa stiamo parlando? Tutto nasce dalla constatazione di una situazione che chi mi legge dovrebbe aver ben nota da tempo: le banche italiane, con 155,852 miliardi di sofferenze lorde già acclarate a fine dicembre, in crescita del 24,6% dall’anno precedente e sui massimi dal 1998, e 300 miliardi complessivi di crediti “problematici” (npl, o “non performing loan” li chiamano gli specialisti, a indicare prestiti di vario tipo e scadenza che vedono già pagamenti d’interessi e/o rimborsi in ritardo o del tutto sospesi a causa dell’impossibilità del debitore a saldare il proprio debito) a fronte di prestiti a famiglie e imprese private in calo del 3,8% su base annua (appena meno marcato del -4,3% di fine novembre) e di un incremento del 2,3% dei depositi (in decisa frenata dal 6,1% di novembre), restano in una situazione critica al punto che non solo non sono in grado di dare nel concreto un aiuto per far ripartire l’economia, ma rischiano in alcuni casi di finire tra quegli “istituti più deboli” che alcuni in Europa preferirebbero fossero lasciati fallire.

Per questo, ora che l’Asset quality review entra nel vivo e prima che siano resi noti i risultati degli stress test (il prossimo ottobre) e le conseguenti misure “suggerite” dalla Bce, anche in Italia si inizia a ipotizzare la nascita di una “bad bank” di sistema, una società di nuova costituzione che comprerebbe i crediti in sofferenza come accaduto in Irlanda e Spagna (dove Nama e Sareb hanno acquistato rispettivamente 71,2 e 50,8 miliardi di euro di prestiti, in particolare legati al comparto immobiliare). In alternativa qualcuno ipotizza che a muoversi siano singoli istituti ( ci starebbe pensando Intesa Sanpaolo, che di crediti problematici “lordi” ne ha quasi 55 miliardi ovvero poco meno di 31 miliardi al netto delle svalutazioni e degli accantonamenti già effettuati, ma anche Bper non escluderebbe l’ipotesi a priori) oppure intermediari specializzati come Mediobanca, pronta a lanciare, si dice, uno o più fondi (magari specializzati per tipologia di sottostante o per durata) i quali comprerebbero questi crediti “deteriorati” da istituti di piccole e medie dimensioni.

Quali sono i vantaggi o gli svantaggi delle tre alternative? Una soluzione “di sistema” presuppone che a gestire la fase di definizione del valore degli asset e il successivo tentativo di recuperare quanto più possibile del credito collegato sia un soggetto pubblico (e dunque il rischio di eventuali minusvalenze finirebbe col gravare sui contribuenti, mentre le banche potrebbero tornare, forse, a concedere nuovi crediti a imprese e famiglie, anche se non è detto finisca così). Se invece procedessero le singole banche ad occuparsene sarebbero una parte degli stessi funzionari che hanno concesso i prestiti a rischio (o loro colleghi), con qualche vantaggio probabilmente in termini di migliore determinazione del reale valore “residuo” di ciascuna posizione ma inevitabili costi legati alle procedure legali necessarie a gestire il recupero dei crediti medesimi.

Se poi ad acquisare saranno fondi di private equity, fondi hedge o banche d’affari (oltre a Mediobanca hanno fiutato l’affare anche fondi come Cerberus, cui UniCredit ha ceduto in dicembre un portafoglio di 950 milioni nominali, o  European Anacap Financial Partners, cui sempre UniCredit ha trasferito a fine ano altri 700 milioni di crediti problematici “pro soluto”) il problema principale consisterà nella valutazione del valore residuo (che solitamente varia da un 5% ad un 15% a seconda dei casi), con perdite più o meno consistenti rispetto ai valori di bilancio che ricadrebbero, come nel caso precedente, sugli azionisti delle banche e probabilmente sui dipendenti, dato che le banche potrebbero tentare di compensare i minori utili con un taglio dei costi, oltre che su imprese e famiglie che rischierebbero di vedersi ulteriormente restringere il credito, almeno in prima battuta.

Comunque la giriate il problema, alla fine, resta che valore dare a grandi portafogli di crediti in buona misura inesigibili. Su questo scoglio si sono già schiantati in passato gli Stati Uniti (dove il Tarp, il programma che evitò il fallimento del sistema finanziario a stelle e strisce durante la crisi 2008-2009, non è mai stato trasformato in una “bad bank” per l’impossibilità di trovare un accordo su tale valore) e l’Irlanda (dove Nama ha valutato fin troppo i crediti ceduti, finendo col fare un “regalo alle banche” pagato dai contribuenti) e rischia di schiantarsi in futuro la Spagna. Personalmente ritengo che dato che stiamo parlando di crediti concessi da istituzioni private a società private, sui quali i singoli istituti privati hanno guadagnato negli anni utili più o meno consistenti, sarebbe opportuno che a procedere fossero i singoli istituti, evitando di coinvolgere i contribuenti e sammai valutando come e perchè alcuni crediti furono “malauguratamente” concessi (magari a qualche grande gruppo, visto che mediamente i prestiti di minori dimensione hanno percentuali di sofferenza inferiori).

Che poi si creino più “bad bank” o si proceda alla cessione “pro soluto” dei crediti problematici a intermediari pronti ad accollarsi il rischio sottostante in cambio di un acquisto “a sconto” o ancora, come pare preferire Banca d'Italia, attraverso una o più cartolarizzazioni è relativamente un dettaglio. Faccio notare peraltro che cartolarizzare un credito, ossia trasformarlo in un titolo, presuppone che esita un mercato per questa carta finanziaria che forse non c’è e che se ci fosse sarebbe opportuno porre precisi paletti affinché non avvenga che ad acquistare siano, putacaso, fondi comuni o fondi pensione controllati dalle stesse banche cedenti-crediti (ipotesi che sottintenderebbe consistenti rischi di un “conflitto d’interesse” ai danni dei sottoscrittori dei fondi medesimi).

A più lungo termine i crediti “inesigibili” dovranno comunque essere riassorbiti dal sistema finanziario italiano, che dovrebbe dunque poter trovare un modo (equo) di compensare le perdite. Diversamente la situazione “straordinaria” di avere istituti con le casse piene di Btp e titoli di stato ma non più in grado di concedere credito ad imprese e famiglia (come attualmente) potrebbe diventare “fisiologica”, ovvero “patologica”. E dato che nonostante i segnali di graduale cambiamento del modello del credito è impensabile che le banche si facciano da parte di colpo, lasciando spazio a nuovi soggetti, questo vorrebbe dire prolungare ulteriormente l’agonia del sistema economico italiano. Agonia, per inciso, che la decisione di proceder contemporaneamente a una “virtuosa” riduzione sia del debito privato sia del debito pubblico in assenza di crescita ha già amplificato e prolungato oltre il necessario.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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