“Lunedì si terranno nuove consultazioni e dovremo avere atteggiamento costruttivo verso la presidenza per affrontare questo nodo complesso.” La supercazzola con la quale il segretario reggente del Partito Democratico Maurizio Martina spiega (si fa per dire) quale sarà la posizione che porterà al Capo dello Stato rende bene l’idea di cosa sia successo in questi ultimi giorni. Il modo inusuale con il quale sia stato dichiarato chiuso il forno con il M5s, ancora prima che la Direzione si riunisse per decidere se aprirlo o meno per la prima volta, ha chiarito quali siano i veri rapporti di forza all’interno del partito. E ha smascherato con lampante evidenza l’ipocrisia del “Matteo Renzi senatore semplice” che, dopo la campagna elettorale, decide di “stare zitto per almeno due anni”. Il segretario reggente Martina, dopo l’intervista di Renzi da Fabio Fazio, si è trovato a dover inserire nella relazione di apertura della Direzione Nazionale la chiusura a un possibile dialogo col M5s, che era proprio ciò di cui avrebbe dovuto discutere la direzione. In altre parole, ha chiuso un forno che ancora non era stato nemmeno aperto. L’unica concessione che gli è stata fatta riguarda la “chiusura preventiva” all’ipotesi di discussioni con gli altri partiti, dunque un no preventivo a un accordo con il centrodestra e soprattutto alla possibilità che il PD faccia nascere un governo a trazione leghista.
Il risultato di questa settimana di passione è stato il via libera a una relazione incomprensibile, con il quale si dà mandato pieno a Martina, che però ha di fatto le mani legate, dovendosi limitare ad “ascoltare attentamente” il Capo dello Stato. La tanto temuta spaccatura non c’è stata, ma la ragione è semplice: non si è deciso nulla, la discussione non è mai entrata nel merito e ognuno ha inteso ciò che gli faceva comodo (basta dare un’occhiata a questo video). Il PD a due mesi dal voto è fermo sulla linea dettata da Renzi un secondo prima di dimettersi: tocca a Lega e M5s governare, se non sono capaci lo dicano agli italiani, ma il nostro posto è all’opposizione. Una posizione legittima, ovviamente, ma priva di un vero e proprio sbocco politico.
Certo, la linea imposta dal diktat renziano ha ottenuto un risultato non da poco: aver "smascherato" l'apertura di Di Maio, costringendolo a tornare su posizioni da campagna elettorale, fino ad abbandonare l'approccio moderato ed europeista, agitare il vessillo del ritorno alle urne e ripristinare l'insulto all'avversario come pratica politica. E lo stesso Grillo si è sentito autorizzato a sparare a zero, ipotizzando un referendum sull'Europa, manco fossimo tornati nel 2014. Ma una "vittoria" di questo tipo rischia di essere effimera, se si considera il contesto generale.
Qual è infatti la prospettiva nel breve periodo di tale linea? Questa è la domanda cui nessuno ha saputo dare una risposta sensata nelle ultime settimane. Posto che nessun democratico possa "ufficialmente" sperare in un governo Di Maio – Salvini, posto che solo il pensiero di un appoggio di qualunque tipo a un esecutivo del centrodestra a trazione leghista dovrebbe far venire l'orticaria a iscritti e dirigenti PD, posto che sono già note le posizioni di netta chiusura di Salvini e Di Maio rispetto a un governo tecnico, istituzionale o semi – istituzionale e di tregua, posto, infine, che la proposta di Renzi (un governo di tutti per scrivere le regole del gioco e fare le riforme istituzionali) ha le stesse probabilità di successo quante sono quelle che il Benevento resti in serie A, quale sarebbe la soluzione per uscire dalla crisi cui il PD intende lavorare?
I renziani si trincerano dietro al "tocca a chi ha vinto le elezioni, se non sono capaci lo dicano", che significa tutto e niente. Non solo perché nell'architettura istituzionale italiana la frase "gli elettori hanno deciso che il posto del PD all'opposizione" è un obbrobrio logico e concettuale, ma anche perché, di fronte alla conclamata incapacità di Salvini e Di Maio di trovare un accordo e alla non autosufficienza di un eventuale esecutivo Pd – FI, l'unica strada che sembra percorribile è quella del ritorno alle urne. È questo ciò che immaginano al PD, anche una volta ottenuto che Di Maio e Salvini si cospargano il capo di cenere e chiedano scusa agli italiani per non essere riusciti a mettere in piedi un governo del presunto "fronte-populista-che-ha-vinto-le-elezioni"?
Evidentemente no, considerando che il tempo è la prima cosa di cui il PD ha bisogno: non sfugge a nessuno che nuove elezioni a strettissimo giro sarebbero una catastrofe, con l’ulteriore prevedibilissimo avanzare grillino e il definitivo collasso della nebulosa forzista a beneficio di Salvini. Lo sa Renzi, lo sanno le decine di parlamentari democratici che temono di tornare a casa senza garanzie, lo sanno gli esponenti della minoranza PD, certi peraltro di non poter ribaltare i rapporti di forza interni, né adesso né nel breve volgere di qualche settimana. Ma il lento logorio determinato da una crisi politica che rischia di essere senza precedenti potrebbe esasperare gli animi e, con Gentiloni a fare quello che può a Palazzo Chigi, cambiare il quadro politico, aumentando la conflittualità fra PD e M5s, aiutando così Renzi nella creazione di quel contenitore "moderato, europeista e argine al populismo" che è il suo vero progetto politico. Ecco, Renzi ha scelto il proprio nemico, il populismo "gentista" del M5s (che ricambia), e spera ancora in una saldatura delle istanze grilline con quelle della destra sovranista e populista di Salvini. Come vi raccontavamo, in effetti, se c’è una caratteristica del renzismo è quella di agitare e creare il conflitto come strumento per aprirsi strade altrimenti blindate, secondo la vecchia logica dell’individuazione del nemico come meccanismo di aggregazione del consenso, di mobilitazione dell’opinione pubblica, di continua creazione di dualismi. Naturale, dunque, per chi crede che il nuovo dualismo sia tra populismo e riformismo rigettare ogni ipotesi di compromesso e provare a "facilitare" l'unione fra le due anime dei suoi avversari. Unirli per indebolirli. Unirli per accelerare la trasformazione del PD in un nuovo soggetto, una forza centrista, di chiara impronta europeista e “macroniana”, progressista sul piano dei diritti civili, che si muova all’interno di schemi consolidati sul versante economico e che ripensi l’organizzazione del partito, superando la struttura territoriale in favore del concetto di “community”.
Le clausole di salvaguardia? La legge elettorale? I diktat europei? Che ci pensi Mattarella, il tempo della responsabilità è finito.