Si allaga il mosaico romano di Capo Colonna, indignazione dei crotonesi. Il Parco: “Potremmo staccarlo”

L’inizio del restauro e la riapertura al pubblico erano stati annunciati in pompa magna appena una settimana fa dai Parchi archeologici di Crotone e Sibari, in occasione delle giornate primaverili del FAI (Fondo Ambiente Italiano). Eppure il mosaico del “balneum” di Capo Colonna domenica scorsa appariva totalmente allagato, ricoperto dall’acqua delle ultime piogge. La segnalazione del pavimento musivo inzuppato è giunta al Gruppo archeologico krotoniate (Gak). Le onde arricciate della decorazione del mosaico di I secolo a.C., scoperto agli inizi del Novecento dall’archeologo Paolo Orsi, due giorni fa si intravedevano appena attraverso l’acqua stagnante, mentre già ieri, complice la giornata di timido sole, sono a tratti ricomparse.
"Vero è che il mosaico è nato per stare sott’acqua nelle terme romane e che oggi è oggetto di manutenzione straordinaria, ma non sarebbe il caso di coprirlo meglio? – commenta a caldo Giuseppe Celsi, membro del direttivo del Gak -. Da una quindicina di giorni lo stanno restaurando e sarà visitabile per tutta la primavera, anche durante il lavoro dei restauratori. Una bella iniziativa. Però la settimana di pioggia torrenziale era ampiamente prevista e quindi sarebbe stato necessario posizionarvi sopra anche un semplice telo protettivo per edilizia, in modo da scongiurare danni irreparabili". Un telo che, tenuto da sassi, ricopre solo per metà il famoso mosaico dei delfini, e non risparmia dalla furia di Giove Pluvio. "Si tratta della testimonianza più importante di età romana a Crotone – sottolinea Celsi -: il mosaico reca un’iscrizione latina in cui si menzionano i magistrati romani che edificarono l’impianto termale". È a loro che si deve la ristrutturazione e la destinazione d’uso dell’edificio tra l’80 e il 70 a.C.
La mancata copertura accende gli animi dei crotonesi: c’è chi si mostra dispiaciuto, chi suggerisce una tensostruttura che possa in futuro preservare il mosaico dagli agenti atmosferici e chi denuncia le continue difficoltà a cui va incontro un sito archeologico unico al mondo, rappresentato dalla famosa colonna superstite del tempio di Hera Lacinia (risalente al V secolo a.C. e tra i più venerati santuari della Magna Grecia), ancora in piedi e a picco sul mar Ionio. Oggi l’iconica colonna sta sul ciglio della scarpata, “desolata ruina” a simboleggiare la resistenza, mentre venticinque secoli fa si trovava in posizione più arretrata rispetto alla costa. È il Sud Italia che incanta e seduce, ma tremendamente fragile. Il promontorio di Capo Colonna, situato circa una decina di chilometri a sud di Crotone, è la punta più orientale della Calabria. Un terrazzo marino con panorama mozzafiato e una falesia alta 15 metri che poggia su un substrato argilloso mangiucchiato dalle mareggiate e dal vento. La velocità di arretramento della costa (dai 48 ai 125-250 metri nel corso dell’ultimo secolo) alimenta serie preoccupazioni per il futuro dell’area archeologica.

A questi rischi idrogeologici e ai terremoti, come quello “spaventevole” del 1638 (tra i più elevati della storia sismica italiana), si aggiunge l’esposizione ai venti e alla salsedine del declivio franoso, dove Annibale in ritirata si imbarcò per Cartagine prima della sconfitta di Zama. Il sito archeologico comprende non solo l’area di culto di fondazione greca, nota per essere stata frequentata dal filosofo Pitagora e rifugio sicuro dei naviganti protetti dalla dea Hera, ma anche l’abitato della colonia romana di Kroton, il museo, la torre di guardia cinquecentesca e una piccola chiesa intitolata alla Madonna di Capo Colonna. "L’intervento di restauro in questi giorni è pensato proprio per chiudere tutte le fessurazioni e bloccare le tessere – spiega il direttore dei neo-accorpati Parchi archeologici di Crotone e Sibari, Filippo Demma, contattato da Fanpage.it -, cioè al fine di rendere il mosaico resistente alla pioggia. Abbiamo lasciato la parte finita esposta proprio per questo motivo e ricoperto quella ancora non conclusa per proteggerla. Il mosaico è sempre coperto, se non episodicamente in vista, e dunque soggetto ad attacchi batteriologici, cioè da parte dei microrganismi che si sviluppano quando sale il livello di umidità. Ecco perché va liberato ogni tanto e risistemato".
Si è deciso di effettuare tale operazione in coincidenza delle giornate FAI di primavera, aprendo il cantiere ai visitatori e lasciando il mosaico scoperto affinché i trattamenti antibatterici facciano il loro effetto. "Per questa settimana – continua Demma – è previsto un ulteriore intervento delle restauratrici per valutare le condizioni del mosaico e decidere se coprirlo nuovamente oppure lasciarlo visibile durante la stagione primaverile, cioè in condizioni meteo favorevoli. Ma il tema è un altro".
Quale? "Ci troviamo in un posto – risponde il direttore – dove le raffiche di vento arrivano fino a 150 chilometri orari, perciò l’idea di una tensostruttura, sospesa ad effetto vela, è impraticabile. Nel passato fu realizzata una copertura che però, calcolata per fronteggiare il vento forte, era impattante dal punto di vista paesaggistico e quindi si scelse di non montarla sul mosaico, ma alle spalle del museo". Inoltre, esiste un’altra controindicazione. "Una struttura così imponente – aggiunge Demma – deve per forza avere fondazioni stabili con plinti di cemento enormi che non è minimamente pensabile appoggino sulle rovine antiche. L’unica strada percorribile individuata al momento, per salvaguardare e allo stesso tempo rendere fruibile il mosaico, è staccarlo dal contesto originario e trasferirlo nel vicino museo, sostituendolo in situ con una copia, come da uso già praticato in archeologia. La soluzione è già stata prevista a livello di ipotesi progettuale all’interno del programma di valorizzazione dell’area archeologica, attualmente in corso di verifica. La possibilità è allo studio anche per quanto riguarda i costi e una collaborazione internazionale con la scuola del mosaico di Gerico".
Non basta la protezione degli dèi per salvare il mosaico sulla piana sferzata dal vento. Qui la solitaria colonna dorica è tutto ciò che rimane del portico d’ingresso dell’Heraion, scampata all’azione distruttrice della natura, ma anche dell’uomo. La spoliazione del tempio, infatti, iniziata già in epoca antica, raggiunge l’apice nel Cinquecento, quando tutta l’area diventa cava di materiali per la costruzione del castello di Carlo V e della cinta muraria di Crotone. Fino ad arrivare all’operazione “Tempio di Hera” del 2017 con la quale i carabinieri del Nucleo Tutela del patrimonio culturale disarticolano nel crotonese un’organizzazione criminale dedita alla scavo clandestino, in particolare nell’area archeologica di Capo Colonna, e al traffico illecito di reperti archeologici. Le ultime condanne, a otto anni di distanza, risalgono ad una settimana fa. Cicatrici indelebili, a cui non è più possibile rimedio, ma possono diventare promemoria per eventuali disastri futuri.