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Tajani e Salvini litigano sul nulla: la politica estera italiana è già al servizio degli obiettivi di Trump

Diciamolo chiaramente: la linea di Meloni in politica estera, la sola che conta, è completamente appiattita su quella della nuova amministrazione americana. E comincia a essere un problema, perché indebolisce la credibilità del nostro Paese e delegittima la linea comune dell’Europa.
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Giorgia Meloni si lamenta spesso del modo in cui, a suo dire, verrebbero interpretate e strumentalizzate le sue parole. Del resto, vittimismo e deresponsabilizzazione sono componenti essenziali della sua comunicazione, praticamente da quando ha cominciato a fare politica. È più o meno quello che è avvenuto dopo la sua intervista al Financial Times, che è stata interpretata un po’ da tutti per quello che era: la conferma dell’appiattimento pressoché totale del nostro governo sulla linea della nuova amministrazione americana, che si esplicita nel modo in cui Meloni si muove ai tavoli europei sulle grandi questioni di politica estera. Abituata a disporre a proprio piacimento o quasi dei media a lei vicini, dunque, la nostra presidente del Consiglio si è detta “stupita” di tale interpretazione e ha provato a propinarci la solita solfa: lei “sta con l’Italia”, che è in Europa e che ha come ruolo quello di “difendere l’unità dell’Occidente”.

Chi abbia rotto l’unità dell’Occidente, però, Meloni non lo dice. Chi stia cannoneggiando le democrazie liberali europee, non è un problema di Meloni. Chi considera gli alleati storici un peso (con epiteti non sempre ripetibili), mentre ridisegna il sistema di scambi e relazioni, non è un discorso che Meloni si sente di affrontare. Insomma, siamo sempre lì: tra vittimismo e supercazzole, speculazioni e trial balloon (oggi ci dice che Schlein vuole una comunità hippie demilitarizzata, invece che il riarmo dell’Unione), la leader di Fratelli d’Italia continua a fare il gioco delle tre carte in politica estera. Indebolisce la linea comune, delegittima l’azione politica europea, mentre rafforza la strategia globale del trumpismo. Uno schema piuttosto chiaro agli alleati europei, ormai rassegnati a muoversi senza il nostro Paese (al netto dei tentativi di von der Leyen, che sul suo rapporto con Meloni ha investito tanto e che prova a giustificare anche i due tavoli su cui gioca la leader di Fdi).

Discorso diverso, invece, per quel che riguarda il modo in cui le scelte di Meloni in politica estera vengono digerite ed elaborate nel dibattito interno. Qui Meloni ha un indubbio vantaggio, che nasce dalla debolezza dei propri alleati di governo e dalle divisioni dell'opposizione. Oltre che da una evidente capacità di far passare per buonsenso e realismo quelle che invece sono posizioni strumentali alla strategia trumpiana di indebolimento della Ue e di ridefinizione delle sfere di influenza, con la riabilitazione dell'autocrazia russa.

Tornando alle vicende interne, va dato atto a Claudio Durigon, vice-segretario nazionale della Lega, di aver detto quello che pensiamo un po’ tutti: Antonio Tajani è in grande difficoltà, perché tocca palla raramente e le sue dichiarazioni appaiono spesso fuori contesto, evidenziando quanto ampia sia la distanza fra i principali partiti della maggioranza di governo. Il piccolo problema è che Tajani non è solo il leader di Forza Italia, ma il ministro degli Esteri del governo di cui Lega e Fratelli d’Italia fanno parte. E dire pubblicamente che “deve farsi aiutare”, equivale ad ammettere che la sua linea non è convincente, efficace, ma soprattutto non condivisa. Che va cambiata, insomma. In un Paese normale, avremmo parlato di una sfiducia esplicita. Da noi, le cose vanno diversamente, soprattutto perché Tajani è da tempo un ministro degli Esteri a mezzo servizio, commissariato da Meloni e poco rispettato dai leghisti.

Il modo in cui si è risolta la polemica di qualche giorno fa è paradigmatico. Infatti, per rabbonire il leader forzista è bastata la prontezza con cui Giorgia Meloni, di solito maestra nell’arte del temporeggiare e attendere che le polemiche interne decantino, è intervenuta. Alla presidente del Consiglio, infatti, è stato sufficiente telefonare a un "furibondo" Antonio Tajani per rinnovargli la propria fiducia e per condividere con lui una buona dose di insofferenza per la strategia leghista. In un momento in cui l’Italia sta giocando una partita cruciale in Europa, è stato il ragionamento comune, aprire una crisi sarebbe stato un problema enorme. Non solo perché si rischiava di indebolire la linea “di discontinuità” del governo italiano in Europa (ricordiamo che Tajani è praticamente il solo interlocutore del partito di maggioranza relativa a Bruxelles e già deve districarsi in equilibrismi dialettici per spiegare ai vertici del Ppe la posizione “problematizzante” del nostro governo su dazi, ReArm e Ucraina). Ma anche perché avrebbe rianimato l’opposizione, che proprio in politica estera mostra con grande evidenza le proprie divisioni strutturali. Meglio derubricare a "salvinata" l'attacco scomposto della Lega all'altro vicepresidente del Consiglio. Così come sono liquidati come marginali i distinguo del Carroccio sulla difesa comune e sulle spese per il riarmo in generale.

Una pezza regge però solo finché non ci sono altre sollecitazioni, è noto. E in politica estera ci sono quei momenti in cui non bastano le capriole comunicative e gli artifici retorici, ma occorre dire da che parte si sta, per cosa si vuole lavorare e qual è la reale strategia. Ecco, uno di quei momenti sta arrivando. Non basteranno più le supercazzole, gli equilibrismi tattici e i "ma anche". Sulla Groenlandia, sull'Ucraina, sui dazi, sullo spazio, Meloni dovrà fare scelte chiare. E dirci anche a che servono Salvini e Tajani.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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