Bombe su Gaza: perché Israele ha violato ora la tregua e quali potranno essere le conseguenze in Medio Oriente

Il terrore è tornato nella Striscia di Gaza. La scorsa notte Israele ha ripreso gli attacchi sul territorio palestinese con intensi bombardamenti aerei e fuoco di artiglieria uccidendo, nel volgere di poche ore, oltre 400 persone, circa un terzo delle quali donne e bambini. Gli ospedali, già al collasso da quando lo stato ebraico ha deciso di tagliare le forniture di energia elettrica e medicinali, faticano ora a gestire il continuo afflusso di feriti e i medici descrivono una situazione apocalittica. Parallelamente ai raid, Israele ha ordinato nuove evacuazioni nel nord e nel centro di Gaza, segnalando un possibile imminente attacco di terra. Molti palestinesi, appena rientrati nelle loro case dopo i bombardamenti degli ultimi 17 mesi, sono dunque costretti nuovamente alla fuga.
Da settimane il governo israeliano minacciava una nuova offensiva. L'obiettivo dichiarato è colpire la leadership di Hamas con la speranza di ottenere il rilascio di altri ostaggi. Tuttavia, persino molte famiglie dei prigionieri contestano questa strategia, segnalando che le bombe rischiano di uccidere anche i loro cari. L’offensiva di Tel Aviv arriva sedici giorni dopo la fine della prima fase di cessate il fuoco concordato a gennaio. Il piano iniziale prevedeva il progressivo ritiro israeliano, il rilascio di tutti gli ostaggi e la cessazione definitiva delle ostilità. Tuttavia, le trattative indirette per un prolungamento della tregua si sono arenate, e Israele ne ha approfittato per lanciare una nuova pesante offensiva. Ma perché l'ha fatto proprio ora? E quali conseguenze potrebbe avere? Fanpage.it ne ha parlato con Giuseppe Dentice, analista dell'Osservatorio sul Mediterraneo (Osmed) dell'Istituto di Studi Politici "San Pio V".
Perché il governo israeliano la scorsa notte ha deciso di rompere il cessate il fuoco e riprendere a bombardare la Striscia di Gaza?
Le motivazioni sono molteplici. Si tratta di un insieme di fattori che si intrecciano su più livelli: quello interno, quello regionale e quello internazionale. È questa combinazione di elementi che ha portato alla decisione delle scorse ore di riprendere gli attacchi a Gaza. Tuttavia, prima ancora di analizzare questi fattori credo che sia fondamentale soffermarsi su un punto: la principale motivazione è stata esplicitata dallo stesso Netanyahu e dai suoi ministri. Già nei giorni precedenti alla firma della cosiddetta tregua del 19 gennaio, e subito dopo, avevano chiarito che il cessate il fuoco avrebbe avuto una durata temporanea.
Per quale ragione?
Questa tregua è servita essenzialmente a guadagnare tempo, sia per Israele sia per Hamas, e a placare le pressioni delle rispettive opinioni pubbliche, che su questo tema si erano fatte sempre più intense. Se partiamo da questa premessa, possiamo capire perché la scelta di Netanyahu di riprendere i raid su Gaza non sorprenda affatto, anzi è coerente con quanto ha sempre affermato: per lui, la guerra non finirà fino a quando Hamas e tutte le organizzazioni non statuali palestinesi considerate una minaccia per la sicurezza di Israele non saranno eliminate. È chiaro che questa posizione ha anche una funzione strumentale, ma riflette la linea del governo israeliano: una strategia di sicurezza che si muove su un piano più ampio, con l’obiettivo di neutralizzare ogni minaccia esterna.
Ci accennava anche a pressioni interne ed esterne.
Sì, e non vanno sottovalutate. L'esecutivo di Netanyahu è composto da ministri di estrema destra che hanno sempre ribadito, senza mezzi termini, che la guerra non finirà finché esisterà un singolo palestinese che potrebbe minacciare Israele. Non possiamo poi dimenticare le dichiarazioni provenienti da figure vicine all’amministrazione americana, che di fatto tendono a sostenere Israele e a ridimensionare qualsiasi aspirazione politica palestinese. A tutto questo si aggiungono le dinamiche regionali e internazionali. È innegabile che il contesto attuale sia favorevole a un rilancio dell’offensiva su Gaza, ma questa non è solo una questione locale: si inserisce in una logica geopolitica più ampia, che coinvolge anche altre aree strategiche, come lo Yemen.
Infine, non va sottovalutato il messaggio che Israele sta lanciando, non solo ai palestinesi, ma anche agli Stati Uniti e al mondo arabo. C'è stata una certa insofferenza da parte di Tel Aviv nei confronti della gestione americana, in particolare dopo che Trump aveva tentato un dialogo bilaterale con Hamas per la liberazione degli ostaggi in possesso di passaporto USA. La decisione di Netanyahu può essere letta anche come un segnale chiaro e diretto a diversi attori internazionali, per ribadire la posizione di Israele e la sua determinazione nel perseguire i propri obiettivi strategici.
Insomma, dietro la ripresa dei bombardamenti israeliani su Gaza ci sono tante motivazioni, una serie di fattori che creano quella giusta commistione tra piano interno, piano regionale e piano internazionale.

Nelle ultime settimane si erano tenuti altri negoziati per implementare il cessate il fuoco: su cosa si è discusso? E cosa è andato storto?
In realtà, sappiamo molto poco sulle trattative, anche perché ogni giorno emergevano nuovi elementi. Quello che sembra certo, comunque, è che Israele ha continuamente alzato l’asticella delle sue richieste ogni volta che si entrava in una fase di negoziato. Il nodo cruciale su cui non si è trovata un’intesa riguarda la questione degli ostaggi. Israele chiedeva ad Hamas di rilasciare undici ostaggi come gesto di buona volontà per avviare una seconda fase del cessate il fuoco. Ma soprattutto, chiedeva garanzie che le forze israeliane potessero rimanere all’interno della Striscia di Gaza. In sostanza, questo significava nessun ritiro da aree strategiche come il corridoio di Netzarim o il corridoio di Philadelphi, né tantomeno il ritiro completo dell’esercito israeliano dalla Striscia.
E Hamas?
Hamas ha mantenuto una posizione molto rigida: chiedeva il ripristino delle condizioni stabilite prima del 19 gennaio. Anche il Qatar e, in parte, l’Egitto, hanno cercato di fare da mediatori, suggerendo al partito palestinese di accettare almeno un compromesso, magari liberando un numero maggiore di ostaggi per venire incontro alle richieste di Israele e Stati Uniti. Ma Hamas non ha voluto cedere su questo punto. Dal suo punto di vista, questa posizione non era insensata. Tuttavia, Israele e gli Stati Uniti hanno saputo giocare la partita sul piano diplomatico, presentando la loro iniziativa come un tentativo sincero di raggiungere un accordo e dipingendo Hamas come il principale responsabile della mancata intesa.
In effetti, poco fa la Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui attribuisce proprio a Hamas la responsabilità della situazione attuale.
Non mi stupisce.
Donald Trump agevolerà le azioni di Israele?
L’amministrazione Trump è una variabile difficile da decifrare, nel senso che non segue una linea politica univoca e rigida. Lo dimostra, per esempio, il tentativo di avviare un negoziato tra gli Stati Uniti e Hamas, che si discosta dalle posizioni tradizionali americane. Trump ha sempre portato avanti una politica di tipo transazionale, basata su scambi e convenienze piuttosto che su alleanze inamovibili. Quindi, sebbene la linea americana sia fortemente allineata con Israele, non significa necessariamente che seguirà sempre e incondizionatamente la sua visione. Questo può generare qualche distanza o persino fraintendimenti tra i due Paesi. Detto ciò, le dichiarazioni quotidiane di Trump e della sua amministrazione lasciano pochi dubbi: viene data praticamente mano libera a Israele su ogni aspetto del conflitto. Con un simile sostegno, è difficile immaginare che Israele possa fare passi indietro o accettare limitazioni significative.
Lei prima ha accennato allo Yemen, teatro negli ultimi giorni di una serie di attacchi, questa volta da parte degli Stati Uniti. C'è il rischio che la ripresa dei bombardamenti a Gaza porti con sé un allargamento del conflitto?
I raid sono stati condotti dall'aviazione statunitense a Hodeida e al-Jawf, sulla costa del Mar Rosso, in Yemen, contro postazioni degli Houthi, accusati di aver colpito o di non aver interrotto gli attacchi contro il naviglio occidentale. Si potrebbe pensare che questi raid rientrino semplicemente nelle operazioni che si svolgono da oltre un anno in quella zona, ma c’è un elemento nuovo e significativo: le dichiarazioni di Trump. Il presidente ha chiarito che ogni azione degli Houthi sarà seguita da una reazione uguale e contraria degli Stati Uniti, e che colpire gli Houthi significa, in un certo senso, colpire anche l’Iran. Questa equazione – "Houthi uguale Iran" – serve non solo a giustificare le operazioni militari, ma anche a esercitare pressione sulla Repubblica Islamica. Potrebbe persino essere utilizzata come leva in un eventuale contesto di negoziazione tra Israele e il gruppo del 5+1 (Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania, ndr) per la questione nucleare iraniana.
Dall’altro lato, c’è la questione della sicurezza delle rotte commerciali tra Mediterraneo, Africa e Asia. Un’escalation nel Mar Rosso potrebbe avere effetti devastanti, sia per il commercio internazionale sia per la stabilità della regione. Senza dimenticare la guerra civile in Yemen, dove il governo centrale, sostenuto da Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, continua a faticare nel contenere la pressione degli Houthi. Se la situazione dovesse degenerare, non è escluso che si possa arrivare a un’escalation ancora più ampia, che nel peggior scenario possibile potrebbe coinvolgere anche lo Stretto di Hormuz.
Insomma, torna il rischio di un'escalation?
Assolutamente sì. Il conflitto contro gli Houthi potrebbe evolversi parallelamente alla guerra su Gaza o seguire una sua dinamica indipendente, ma resta comunque un segnale molto pericoloso. E non dimentichiamo i precedenti: tra aprile e ottobre dello scorso anno ci sono stati lanci di razzi, missili e droni tra Israele e Iran. Non hanno portato a una guerra su larga scala, ma rappresentano un campanello d’allarme su quello che potrebbe accadere nella regione.