Soffocò la figlia di 3 mesi in ospedale, evita l’ergastolo: “Per lui la piccola ingombrante e scomoda”

Evita l’ergastolo ma la condanna definitiva per Giuseppe Difonzo riapre di nuovo le porte del carcere per il papà che uccise la figlioletta di soli tre mesi, soffocandola nella notte tra il 12 e 13 febbraio 2016 nell'ospedale pediatrico ‘Giovanni XXIII' di Bari dove era ricoverata per un precedente tentativo di omicidio da parte dello stesso genitore.
La Corte di Cassazione infatti ha condannato l’uomo in via definitiva a 29 anni di reclusione per l’omicidio volontario della piccola, confermando di fatto la sentenza di appello bis emessa nell’aprile dello scorso anno dalla Corte d'assise d'appello di Bari. La sentenza pronunciata ieri dalla suprema corte chiude così una lunga vicenda processuale durata oltre nove anni.
Il 29enne di Altamura fu condannato una prima volta in primo grado a 16 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, poi in secondo grado all'ergastolo per omicidio volontario premeditato ma la Cassazione annullò tutto, rinviando il fascicolo per un appello bis. La Corte d'assise d'appello quindi condannò di nuovo Difonzo ma a 29 anni di carcere concedendogli le attenuanti generiche.
Una sentenza confermata ieri in Cassazione in via definitiva. Come stabilito da indagini e giudici, Difonzo avrebbe ucciso la figlia in pochi minuti, sfruttando un momento in cui era rimasto da solo con lei in ospedale. Un luogo in cui la piccola aveva trascorso oltre 60 giorni nei suoi tre mesi di vita a causa di continue crisi respiratorie che per i pm erano provocate sempre dal padre.
Un comportamento che gli è valsa anche la condanna per due tentati omicidi, avendo cercato di soffocare la figlia già nel novembre 2015 e nel gennaio 2016. La difesa aveva sostenuto che si trattasse della “sindrome di Munchausen per procura”, una patologia psichiatrica che spinge ad attirare l’attenzione su di sé facendo del male ad altre persone, ma per l’accusa, invece, l’uomo semplicemente non voleva essere padre.
Per i giudici, Difonzo vedeva "ingombrante e scomoda" la presenza della figlia, perché la sua nascita "lo poneva di fronte alla necessità di assumersi delle responsabilità fino ad allora estranee al suo orizzonte". Come scritto dai giudici, l'ex compagna dell'uomo "non sembrava più disposta ad accettare il suo ruolo marginale rispetto agli oneri familiari e non". E questo "bastava per determinarlo a sopprimere la bambina, per tornare a sgravarsi dall'impegno e dallo sforzo di dover simulare un coinvolgimento emotivo verso la figlia". Mentre “deve escludersi che le azioni del Difonzo siano da ricondursi al bisogno di attirare l'attenzione su di sé e di ricevere apprezzamento per aver salvato la propria figlia dal pericolo di vita (dopo averlo perciò procurato)".