Migranti, Sea Watch si prepara a un altro anno di scontri con il governo Meloni: “È sempre più ostile”
"Dopo più di 15 ore di navigazione, le 17 persone soccorse dalla nave Aurora sono sbarcate ieri al sicuro a Pozzallo. Sarebbero bastate 3 ore per raggiungere il porto sicuro più vicino, ma per il governo italiano prolungare inutilmente le sofferenze delle persone in mare è ormai la prassi". A dirlo Sea Watch, una delle principali Ong impegnate nel soccorso in mare, che nella notte di ieri, 2 gennaio 2024, dopo aver prestato soccorso a una barca in difficoltà, ha condiviso un post su X (ex Twitter) per denunciare le dure condizioni cui sono stati sottoposte le persone salvate.
Il post della Ong fa riferimento alle politiche adottate dal governo italiano, che, attraverso una modifica al decreto Piantedosi, oggi decreto Flussi, ha introdotto misure che complicano ulteriormente il lavoro delle Ong in mare. In particolare, la designazione di porti lontani, spesso nel Nord del Paese, per lo sbarco dei migranti soccorsi, ha l’effetto di prolungare la sofferenza di chi è già sopravvissuto a lunghe traversate. Con il nuovo decreto, inoltre, le navi delle Ong devono rimanere più a lungo nei porti in attesa di fermo, rallentando così la possibilità di tornare in mare per altre operazioni di soccorso e trovandosi così a fronteggiare sfide sempre più complesse nel cercare di salvare vite e nel denunciare le gravi problematiche dietro alle politiche migratorie.
Il 2025 si è aperto con una serie di tragedie nel Mediterraneo. Davanti alle coste tunisine di Kerkennah, il 2 dicembre scorso, un naufragio ha causato la morte di almeno 27 persone migranti, tra cui un neonato, e 83 persone sono riuscite invece a salvarsi. Poche ore dopo, un’altra imbarcazione con 60 persone a bordo è affondata vicino all’isola di Djerba. Solo alcuni giorni prima, nella notte di Capodanno, un altro naufragio, questa volta a largo di Lampedusa, ha lasciato in mare 20 dispersi; tra i pochi sopravvissuti un bambino siriano di 8 anni che ha perso la madre tra le onde.
In questo contesto, Fanpage.it ha intervistato Rachele Giorgi, Advocacy and Legal Officer di Sea Watch, per comprendere meglio le implicazioni legali ed etiche delle politiche italiane in materia di soccorso in mare.
Qual è stato il bilancio delle operazioni di Sea Watch nel 2024 e quali sono state le sfide che ha incontrato?
Nel 2024, Sea Watch ha condotto decine di missioni, salvando centinaia di vite. Tuttavia, l’anno è stato segnato da sfide enormi: restrizioni legali crescenti, costi operativi aumentati e l’ostilità crescente del governo Meloni. Il bilancio è positivo per le vite salvate, frustrante per l’alto numero di morti in mare e di persone respinte, avvilente per il trattamento riservato a chi fa di tutto, ogni giorno, per salvare vite.
Come si svolge un salvataggio in mare?
Un salvataggio inizia con una segnalazione: può arrivare da uno dei nostri aerei da monitoraggio, un avvistamento diretto o un allarme lanciato da piattaforme come Alarm Phone.
Quando individuate un’imbarcazione in difficoltà, cosa fate?
Una volta individuata l'imbarcazione in difficoltà, ci avviciniamo valutando la situazione: condizioni meteo, numero di persone a bordo, stato dell’imbarcazione. Prima di intervenire, informiamo il Centro di Coordinamento dei Soccorsi Marittimi (MRCC), sollecitando un intervento immediato. Se non c’è risposta o se ci sono ritardi o se le condizioni dell’imbarcazione sono critiche procediamo al soccorso, secondo le norme del diritto internazionale.
Con l’entrata in vigore del cosiddetto decreto Flussi, sono cambiate anche le vostre operazioni di salvataggio. Quali sono le conseguenze legali e umane per le vostre missioni?
Le decine di ore spese a raggiungere porti lontani rappresentano un problema etico e operativo. Costringere una nave con naufraghi vulnerabili a lunghi trasferimenti è una scelta che moltiplica le sofferenze di chi è già sopravvissuto a viaggi disumani. Fino ad oggi la strategia dei porti lontani serviva anche per tenerci quanto più tempo possibile dal Mediterraneo centrale. Il nuovo decreto Flussi introduce regole ancora più rigide con misure, come la confisca della nave, che vogliono scoraggiare le organizzazioni non governative impegnate in mare. Non ci vogliono nel Mediterraneo anche perché siamo gli unici in grado di raccontare la disumanità dei respingimenti in Libia e Tunisia.
Parliamo di migranti trattenuti in Paesi terzi al di fuori dell’Unione Europea. Qual è la vostra posizione sui centri in Albania?
La proposta del governo italiano di trasferire i richiedenti asilo in Albania è un fallimento giuridico, economico e umanitario. I centri in Libia non sono altro che la riproposizione di un modello fallimentare, quello dei Centri per il rimpatrio, veri e propri lager a pochi chilometri dalle nostre città.
L’immigrazione è un fenomeno strutturale, eppure si continua a parlare di emergenza. Perché le Ong come Sea Watch sembrano essere bersaglio privilegiato della propaganda politica?
L’immigrazione viene strumentalizzata come emergenza per distogliere l’attenzione da problemi strutturali e responsabilità politiche. Le Ong come Sea Watch sono bersagli perché incarnano un’opposizione concreta alle politiche di chiusura dei confini. Se le persone rischiano la vita in mare è perché non esistono vie legali e sicure per arrivare in Europa. La nostra presenza evidenzia il fallimento delle politiche migratorie europee, rendendoci un facile capro espiatorio.