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News su migranti e sbarchi in Italia

La strategia del governo Meloni sull’immigrazione è incapacità o eversione

Con la mancata convalida del trattenimento dei dodici naufraghi in Albania, il Tribunale di Roma non fa opposizione politica, ma si limita ad applicare norme giuridiche, pronunciando l’ennesima bocciatura giudiziaria di atti palesemente illegittimi.
A cura di Roberta Covelli
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Incapacità o eversione. Non c’è altro modo di spiegare la strategia del governo Meloni nella gestione del fenomeno migratorio. A dimostrarlo è anche l’esito, prevedibile e previsto, dell’azione propagandistica di invio di sedici naufraghi in Albania, sulla base del protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria. E, per spiegare la gravità delle scelte dell’esecutivo sul tema, non occorrono nemmeno valutazioni politiche, basta un minimo di conoscenza giuridica.

In origine era il blocco navale, poi lo stato d’emergenza

Nel costruire la propria base di consenso, Giorgia Meloni ha promesso a lungo di fermare gli sbarchi attraverso il blocco navale. L’attuazione del piano è sempre stata piuttosto fumosa, soprattutto sul piano del diritto: la leader di Fratelli d’Italia prospettava con frasi a effetto l’affondamento delle navi, nei luoghi di partenza o nei porti italiani, che fossero mezzi di fortuna o navi di soccorso. Quale fosse il titolo di legittimità di queste azioni non è mai stato chiarito.

Il concetto di blocco navale è poi sparito dal programma di governo con l’approdo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, per ovvie ragioni. La più banale: è illogico, oltre che ingiustificato, il ricorso a uno strumento militare per la gestione di un fenomeno civile.

Proprio sulla gestione del fenomeno migratorio, dopo appena un semestre di governo, l’esecutivo ha dichiarato lo stato di emergenza, su impulso dei ministri Musumeci e Piantedosi. Attraverso questo strumento amministrativo, più volte utilizzato ad esempio durante la pandemia, il governo Meloni ha di fatto demandato alla protezione civile la gestione dei flussi migratori, ammettendo implicitamente di non essere in grado di organizzare il sistema di accoglienza definito negli anni dalle politiche di destra.

Sbarco selettivo, carico residuale, pizzo di Stato

L’implicita dichiarazione di fallimento arrivava anche dopo una serie di bocciature giudiziarie dei provvedimenti del governo in materia di soccorso in mare. Nel novembre 2022 c’era stato il caso Humanity, a cui il ministro Piantedosi, di concerto con Crosetto e Salvini, aveva imposto il cosiddetto "sbarco selettivo", autorizzando il trasbordo dei soli naufraghi in condizioni di emergenza. Dopo pochi giorni, anche le persone definite "carico residuale" avevano ottenuto di poter sbarcare, grazie alla pronuncia in via cautelare del tribunale di Catania, che aveva riconosciuto l’illegittimità dell’atto amministrativo interministeriale.

Qualche mese dopo, nel settembre 2023, un decreto a firma dei ministri Piantedosi, Nordio e Giorgetti aveva previsto, da parte dei richiedenti protezione, il versamento di una cauzione di quasi 5mila euro per evitare di finire rinchiusi nei Cpr, i centro di permanenza e rimpatrio. La disapplicazione del provvedimento era arrivata dai tribunali di Firenze, di Bologna, di Catania. In quest’ultimo caso, la giudice Apostolico, che non aveva convalidato il trattenimento di richiedenti protezione tunisini, era stata destinataria di duri attacchi di ministri e parlamentari di destra, che l’accusavano di un uso politico della giustizia.

Il diritto d’asilo, la libertà di circolazione, l’integrità personale

Che la giustizia sia anche politica è in realtà piuttosto ovvio: le norme, le leggi, il diritto rispondono alla coscienza dell’epoca in cui sono vigenti. Se nei regimi autoritari e nei totalitarismi, gli ordinamenti traducono l’ideologia di governo in leggi che impongono l’obbedienza generalizzata, eliminano gli spazi di dissenso e conflitto, comprimono i diritti, così anche il successivo riconoscimento solenne dei diritti umani, giunto di fronte alle macerie materiali ed etiche della Seconda guerra mondiale, è un atto politico tradotto in testi giuridici. Nel 1948, con la Dichiarazione universale dei diritti umani, si era iniziato proprio questo processo di codificazione e accordo sui diritti che spettano a ogni essere umano, partendo dall’idea che "tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti" (così l’articolo 1).

Le norme del diritto internazionale e umanitario non sono quindi delle imposizioni dall’alto, ma riconoscono tutele necessarie e già previste dalla cultura umana e giuridica.

Ad esempio, il diritto di asilo, che garantisce a chiunque fugga da persecuzioni o danni gravi nel proprio paese di poter chiedere e ottenere protezione, c'era già nell'Antica Roma, e, culturalmente, si inserisce nelle consuetudini di ospitalità della tradizione greca.

O, ancora, la libertà di movimento prevista tra i diritti umani, pur spesso ostacolata da burocrazie e scelte nazionali, deriva da una verità logicamente innegabile, spiegata dal filosofo Immanuel Kant nel suo La pace perpetua (1795): le persone "non possono disperdersi all'infinito, ma devono da ultimo tollerarsi nel vicinato, nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra".

E anche il diritto di non subire trattamenti inumani e degradanti, il diritto di non essere detenuti senza elementi d’accusa, il diritto di difesa non sono capricci buonisti, ma rappresentano le basi della nostra civiltà giuridica, dall’Habeas corpus alle argomentazioni di Beccaria e Foucault.

Gli obblighi giuridici a garanzia dei diritti

Per garantire questi diritti a chiunque, italiani compresi, occorre però che gli Stati si assumano le proprie responsabilità: la dichiarazione di un diritto è infatti vuota se il diritto non è poi effettivo, esigibile, attuale. Perché sia così, correlati ai diritti ci sono sia doveri etico-morali sia obblighi giuridici. Se i primi dipendono dalla sensibilità individuale e collettiva, i secondi sono invece vincolanti: sono infatti stati scritti, approvati e ratificati in apposite dichiarazioni e convenzioni internazionali, a cui anche l’Italia ha, democraticamente e giustamente, aderito, e che deve quindi rispettare.

Tra queste c’è ovviamente la Dichiarazione universale dei diritti umani, ma anche la Convenzione di Ginevra del 1951 sul diritto d’asilo, la CEDU, cioè la Convenzione europea per i diritti umani, che comprende libertà e diritti già citati. E, rispetto al diritto del mare, l’Italia ha ratificato nel 1989 la convenzione UNCLOS sul soccorso, che impone di fornire assistenza a ogni naufrago, senza distinzioni. La ragione di un simile obbligo è tanto semplice quanto logica: in una fase di soccorso, la priorità è salvare vite, a prescindere che il naufrago fosse su uno yacht affondato o sia stato torturato nei lager libici.

Questi obblighi, e questi diritti, sono tra loro legati. Il soccorso infatti non si esaurisce lanciando un salvagente, ma facendo sbarcare le persone assistite in un place of safety, un posto sicuro, presso il quale possano essere soddisfatti i loro bisogni primari: cibo, alloggio, cure mediche, protezione internazionale.

La procedura accelerata di frontiera e le deportazioni in Albania

Proprio sulla protezione internazionale, cioè su un bisogno primario che deriva da un diritto umano fondamentale, si sono concentrate le strategie del governo Meloni (e, a dire il vero, pure certi precedenti).

All’indomani del naufragio di Cutro, infatti, l’esecutivo ha convocato un consiglio dei ministri straordinario, promettendo l’emanazione di un decreto. Il decreto legge in questione, oltre a introdurre il nuovo delitto colposo di "Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina", ha ristretto ulteriormente le ipotesi di protezione speciale, di fatto condannando al rimpatrio anche persone ben inserite, che hanno sviluppato legami personali e familiari in Italia.

Viene anche specificata un’ipotesi di procedura accelerata, attraverso l’aggiunta della lettera b-bis) all’art. 28-bis D.Lgs. 28/2005 che si applica alle domande di protezione presentate "direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 4 da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicuro".

Di fatto è su queste ipotesi che si basa il protocollo tra Italia e governo albanese, con cui quest'ultimo concede il trattenimento di migranti sul proprio territorio, sotto la normativa e con la piena responsabilità (anche finanziaria) dell’Italia. I sedici naufraghi portati nel campo di Shengjin sono egiziani e bengalesi, provenienti da Paesi considerati sicuri dal governo italiano. Quattro di loro sono già rientrati, in quanto minorenni o vulnerabili. Degli altri dodici il tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento, applicando quanto emerso dalla sentenza della Corte di Giustizia europea dello scorso 4 ottobre, che risponde ai principi generali in materia di diritto alla protezione.

Un Paese sicuro o è sicuro ovunque e per tutti o non è davvero sicuro

La sentenza europea, così come le pronunce del tribunale di Roma, non spiegano nulla di inedito. La protezione delle persone, infatti, riguarda le loro condizioni concrete ed effettive.

Sul punto, tra l'altro, l’Italia è stata sanzionata più volte dalla Corte europea dei diritti umani (la CEDU): nel 2012, per respingimenti verso la Libia (caso Hirsi), e nel 2014, per espulsioni verso la Grecia (caso Sharifi). In entrambi i casi, le pratiche di respingimento trattavano collettivamente e in maniera sommaria i potenziali richiedenti asilo, negando di fatto il diritto alla protezione dalle persecuzioni.

Già tenendo conto di questi precedenti, e dei princìpi su cui si basano, è evidente come una lista di Paesi sicuri non possa bastare per ridurre le tutele a garanzia di una persona in fuga: l’analisi del rischio che corre ciascuno dipende non tanto (o non solo) dalle condizioni del Paese d’origine, ma anche dall’identità del richiedente, che proprio in base alle sue caratteristiche individuali e alla sua storia personale può essere vittima di violenze e discriminazioni.

La lista dei Paesi sicuri stilata dal governo, quindi, deve essere considerata al più un’indicazione di massima: chi esamina una richiesta di protezione deve valutare il caso concreto e individuale, oltre a verificare se il Paese d’origine sia effettivamente sicuro, per chiunque.

Questo tema era già stato sollevato dal tribunale di Firenze sulla Tunisia e viene affrontato proprio dalla sentenza della Corte di giustizia UE a cui fanno riferimento le recenti pronunce del tribunale di Roma: perché sia sicuro, un Paese deve esserlo in ogni parte del suo territorio e per tutti, minoranze comprese. Se infatti ci sono discriminazioni, abusi, violenze in alcune regioni o contro particolari gruppi di persone, il Paese in questione non può essere considerato davvero sicuro per nessuno: in assenza della tutela di tutti, nessuno è in salvo.

Forme e limiti: sovranità e mandato elettorale non possono calpestare i diritti

Di fronte all’ennesima, inevitabile, bocciatura giudiziaria di atti illegittimi, il governo reagisce oscillando tra le inquietanti dichiarazioni del ministro Nordio, secondo cui "se la magistratura esonda dobbiamo intervenire", e i tentativi salviniani di riprendersi la scena, chiamando i leghisti in piazza contro la magistratura, con uno sprezzo delle regole preoccupante in un Paese democratico.

Anche Giorgia Meloni, in risposta alle critiche politiche sull’azione propagandistica verso l’Albania, si richiama al mandato elettorale ricevuto, con un trucco dialettico rodato, che sposta sul piano retorico una questione di diritto, stuzzicando la contrapposizione tra quel che si vuole e quel che si può.

Che un mandato sia chiaro non implica infatti che sia legittimo: un sicario riceve l’ordine di uccidere qualcuno su commissione, ma, per quanto possano essere precise le indicazioni a cui si attiene, nessuno dubita che le sue azioni siano criminali.

Per il mandato elettorale il ragionamento deve essere lo stesso e pure la nostra carta fondamentale, fin dal suo primo articolo, lo chiarisce: la sovranità appartiene al popolo "che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".

E in questi limiti ci sono anche i diritti umani, riconosciuti sia dalle leggi nazionali, sia dalle convenzioni internazionali, sia dall’etica universale. La protezione umanitaria non è quindi un’opzione che Giorgia Meloni e il suo governo possano applicare o disapplicare a piacimento: è invece un elemento fondante della nostra cultura giuridica e umana.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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