50 anni fa moriva Don Milani, il prete “ribelle” che ci ha insegnato il cambiamento
Il 26 giugno del 1967 muore, a Firenze, Don Lorenzo Milani. Un personaggio definito più volte “scomodo” perché schierato a favore delle classi più povere pur provenendo da una ricca famiglia, perché aveva scelto di essere insegnante di vita prima di poter diventare pastore di anime. La sua “ribellione” a quel sistema sociale escludente e classista di cui, fin dalle prime lettere e i primi scritti, denuncia il meccanismo perverso, si esemplifica nella bellissima “Lettera ad una professoressa”, scritta inseme ai suoi alunni pochi mesi prima di morire e il cui insegnamento oggi, a 50 anni dalla sua scomparsa, non cessa di essere fondamentale.
Figlio di una ricca famiglia fiorentina, Lorenzo Milani vive in un ambiente laico, colto e raffinato, e cresce con la passione della pittura. Mentre affresca una vecchia cappella sconsacrata, nelle pause sfoglia un vecchio messale: qui scopre il Vangelo che con il suo messaggio puro ed essenziale cambierà per sempre la sua vita. Il monito evangelico dell'uguaglianza e della beatitudine dei poveri sarà punto di partenza e di arrivo della sua critica al sistema scolastico. Prima di essere prete, Don Milani decide di voler essere maestro: egli decide che è necessario partire dalla scuola per elevare “le bestie ad uomini, e gli uomini a santi”.
Una scuola per gli esclusi
“Un ospedale che cura i sani e respinge i malati”: questa è, secondo Don Milani, la fisionomia che la scuola pubblica ha assunto negli anni. Una scuola classista che valutava allo stesso modo i figli dei ricchi e dei poveri senza tener conto dei vissuti di ciascuno di loro, e che era gradualmente divenuta incapace di preparare i ragazzi ad affrontare il domani.
Don Milani ha in mente una scuola diversa: un'istituzione che sia inclusiva, democratica, il cui fine doveva essere far arrivare tutti gli alunni ad un livello minimo di istruzione: solo così sarebbe stato possibile sperare di combattere l'ineguaglianza sociale e lo sfruttamento generale di cui le scuole sono soltanto una replica. Fu così che tramite la didattica della scrittura collettiva, gli alunni di Barbiana insieme Don Milani scrivono “Lettere a una professoressa”, un'opera che riassume in un linguaggio semplice, accessibile a tutti, la complicata situazione scolastica italiana e soprattutto tenta di darvi un'alternativa.
A Barbiana, contro “Pierino del dottore”
Nel 1954 Don Milani viene mandato in uno sperduto paese del Mugello, che all'epoca contava 39 abitanti. La quotidianità di Barbiana confermerà, per Don Milani, lo stretto legame fra sistema scolastico, arretratezza e sfruttamento delle classi subalterne che egli aveva già avuto modo di osservare in altri piccoli paesini fiorentini. Il parroco si trova davanti “ragazzi che non hanno mai sentito dire che a scuola si va per imparare, e che andarci è un privilegio”. Così Don Milani comprende che, prima di essere parroco, deve farsi insegnante.
Sandro in poco tempo s'appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e di prima. A giugno il “cretino” si presentò alla licenza e vi toccò passarlo.
Alle esperienze di vita quotidiana si affiancano riflessioni di carattere generale di critica al sistema scolastico vigente: memorabile resta l'esempio di “Pierino del dottore”, ovvero del tipico figlio di famiglia istruita e benestante, emblema del classismo e dell'esclusività di cui la scuola si faceva garante in quegli anni.
Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta.