24 maggio: dalla leggenda del Piave alla realtà dei morti
II Piave mormorava
calmo a placido al passaggio
dei primi fanti, il ventiquattro maggio:
l’esercito marciava
per raggiunger la frontiera,
per far contro il nemico una barriera.
Questo è l’incipit della “Leggenda del Piave”, canzone dell’autore napoletano Giovanni Ermete Gaeta, alias E. A. Mario, che ne compose versi e musica. Era l’Italia dei fanti “talpa”, sporchi di fango, rintanati nelle trincee in cui la sopravvivenza era garantita dall’udito più che dalla vista: il nemico, a sua volta, era nascosto in cunicoli chilometrici e la sua presenza poteva essere precipita solo imparando a riconoscere il sibilo dei mortai e il singulto interminabile della mitragliatrice. Vivevano in condizioni disumane mischiati, per la prima volta, cafoni meridionali e contadini settentrionali, erano tutt’insieme italiani partecipando al primo conflitto della nazione unificata, retoricamente presentata come “Quarta guerra d’Indipendenza”.
Giunti al fronte come uomini si trasformarono in matricole e carne da macello guidati da ufficiali alteri, nobili e borghesi, privi di ogni sentimento di riconoscenza verso quel mucchio di muscoli e nervi esposti alla furia della lotta.
Un ordine improvviso, spesso privo di valore strategico, li sbalzava fuori dalla “tana” per andare alla conquista di un pezzo di terra brullo e roccioso intorno al quale attestarsi per poter dire, ai generali dello Stato maggiore, che l’esercito avanzava nonostante la resistenza del nemico.
Morivano così a migliaia, come mosche abbattute dall’insetticida. Alla fine i numeri saranno quelli “dell’immane tragedia”: sui vari fronti si contarono oltre 16 milioni di morti e 20 milioni tra feriti e mutilati. Se contiamo solo gli italiani arriviamo alla somma di un milione e duecentoquarantamila, tra vittime militari e vittime civili ovvero quasi il 3,50% di una popolazione che contava 35milioni e 600mila abitanti.
Quella canzone per me rappresentava altro, una specie di solfa che la maestra sin dalla prima elementare ci costringeva a cantare in piedi, ogni mese di maggio, portando la mano sinistra al cuore. Quando tornavo a casa trovavo mio nonno che, pur essendo nato nel 1909, ricordava benissimo il ritorno dei reduci nella sua città. Uomini sfatti, pieni di rancore e frustrazione verso uno Stato che gli aveva promesso un futuro benessere in cambio di un braccio, di una gamba, di un occhio e che invece li aveva lasciati abbandonati al loro destino di ultimi ed emarginati, più di prima.
Mi prendeva per mano, andavamo al “mangiadischi” che aveva in soggiorno e inseriva il 45 giri della canzone esortandomi a cantarla insieme a lui. Quella che in classe mi pareva un esercizio noioso e un po’ pedante, voluto da una maestra anziana e bisbetica, diventava, sulle ginocchia di mio nonno, una favola in cui scompariva il lutto della tragedia e appariva, come in un sogno, una galleria di eroi, sconosciuti e ignoti, che mi raccontavano le vicende di un mondo antico in cui la guerra era onore e sacrificio, anche se sporca e assassina.
Questa retorica me la sono portata dietro per tutto il ciclo scolastico con professori che riducevano il racconto di quegli eventi alla sola lettura di qualche pagine del manuale di storia. I milioni vittime sparivano di fronte alla gloria della vittoria, l’unica vera e reale di un’Italia culla del fascismo, anche frutto di quella rabbia e delusione mai lenite dalla idiozia di una monarchia e di una classe dirigente che vedeva in quegli uomini solo bestie da mandare al massacro.
Non so se a mio figlio farò mai ascoltare questa canzone, ma è certo che gli racconterò come andarono veramente le cose, quante famiglie furono distrutte da una guerra che serviva a spartire nuove quote di mercato e ridisegnare le rotte commerciali della società industriale che esigeva consumi di massa, consegnando lo scettro della guida agli Stati Uniti d’America.
Quando terminava il disco guardavo mio nonno, mi sorrideva, e gli facevo una domanda: “Ma se i tedeschi erano dei fetenti perché poi ci siamo alleati nella seconda guerra mondiale?”. La risposta era sempre la stessa: “Questa è un’altra storia e quando la studierai te la racconterò”. Quando arrivò il fatidico momento avrei voluto fargli la domanda ma mio nonno non c’era più.