Valeria Parrella racconta il suo ultimo romanzo: “Tempo di imparare” (INTERVISTA)
Valeria Parrella è una scrittrice napoletana (per la precisione è nata a Torre del Greco) non ancora quarantenne che dal 2003 a oggi è passata dal rango di giovane promessa a quello di autrice consolidata e di successo: due raccolte di racconti, “Mosca più balena” (2003) vincitore del Premio Campiello Opera Prima e “Per grazia ricevuta (2005) entrato tra i cinque finalisti al Premio Strega; quattro romanzi, di cui il primo “Lo spazio bianco” (2008) portato sullo schermo da Cristina Comenicini e presentato alla Mostra del cinema di Venezia; e cinque testi teatrali di cui l’ultimo, “Antigone” (2012) ha ricevuto il premio Le maschere del teatro italiano.
In occasione della recente pubblicazione per Einaudi del nuovo romanzo “Tempo di imparare”, siamo andati a trovarla nella sua casa nel centro di Napoli, proprio a due passi dal Duomo: “Legga il libro stanotte, altrimenti me ne accorgo e non le rispondo” mi scrive via mail (scherzando?) la sera prima dell’incontro. E in effetti, la mattina seguente, non appena arrivato, ho giusto il tempo di svestire il cappotto che ribadisce il concetto: “L’ha letto? Io non credo si possa fare un’intervista senza sapere di cosa si parla”, poi però con un sorriso ci fa accomodare in soggiorno: “Gradite un caffè?”, accettiamo con un cenno automatico della testa. A quel punto si allontana, attraversando l’infilata di porte e stanze tipica dei palazzi ottocenteschi in cui gli ambienti sembrano susseguirsi interminabili. Poco dopo, riemerge dalla cucina con un vassoio su cui svettano tre tazze fumanti: facciamo conversazione, rompiamo il ghiaccio. Il caffè è ottimo.
Nei brevi istanti in cui l’operatore sistema il treppiedi e prova il microfono e l’inquadratura, leggo fugacemente l’incipit del romanzo, lungo appena un paio di pagine. I protagonisti sono una madre e suo figlio, il piccolo Arturo. La madre parla in prima persona e si rivolge al bambino, in forma diretta, col tu. Da subito, però, è chiaro che questi io/tu sono un'unica entità: i punti di vista si mescolano, si confondono… E infatti le chiedo, a telecamera spenta, chi è che viene accompagnato a scuola (di questo parla l’inizio del romanzo), la madre o il figlio? “Volevo esattamente questo – risponde sicura – istillare il dubbio nel lettore su chi fosse realmente l’accompagnatore e chi l’accompagnato”.
È tutto pronto, la lucina rossa della telecamera si accende: da adesso in poi si fa sul serio. La prima domanda che le rivolgo è banale, ma d’altronde si parte sempre con qualcosa di semplice: “Tempo di imparare” è il seguito di “Lo spazio bianco”? Da qui in poi Valeria Parrella diventa un autentico fiume in piena, “in molti mi hanno posto questa domanda”, poi prosegue elencando minuziosamente i motivi per cui potrebbe essere così e le ragione per cui non è “un continuo”, ma un testo che nasce da esigenze del tutto autonome. “La storia è una sorta di pretesto, in questo libro sono più interessata allo stile, alle parole”. E in effetti, sfogliandolo ci si rende conto che il lavoro sulla lingua è molto accurato e minuzioso, cosa a cui peraltro aveva già abituato i suoi lettori.
La vicenda, in sintesi, racconta l’epopea quotidiana di una madre e del suo bambino disabile alle prese con fisioterapisti, burocrati, insegnanti, compagni di classe… “La paura è quella di non farcela, e le armi a ben guardare sono le stesse della letteratura: nominare le cose, percorrerle, trasfigurarle, lasciarle andare”. Poi mi sorprende con una curiosità: “Sa qual è l’etimo della parola ‘handicap’? Viene dall’inglese ‘hand in cap’ (mano nel cappello) che in origine si riferiva a un gioco d’azzardo e che poi è entrata nel gergo sportivo delle gare ippiche per indicare una regola che serve a compensare le disparità tra i cavalli più veloci rispetto a quelli più ‘svantaggiati’”.
D’un tratto si interrompe, accorgendosi solo in quel momento di aver tenuto gli occhi bassi, senza mai rivolgerli né a me né alla telecamera: “Sarebbe meglio se guardassi lì – indicando l’obiettivo – vero? Tengo lo sguardo basso perché mi aiuta a concentrarmi e a darle risposte più accurate… – poi riprende – lo sa che un mio amico quando parla tiene gli occhi chiusi, proprio serrati! Il viso lo rivolge verso il suo interlocutore, ma gli occhi sono chiusi, dice che così si concentra meglio”. Dopo queste parole, l’intervista prosegue spedita, serena: si protrae per oltre un’ora, ma se l’operatore non avesse dato lo stop avrebbe potuto durare anche di più. In definitiva, Valeria Parrella è una donna apparentemente spigolosa, ma in realtà schietta, lucida. Non perde tempo, perché non ha tempo da perdere. Come tutte le persone colte e vitali insieme, ha bisogno di entrare in frizione col proprio interlocutore, non tollera ampollosità e retorica. Ha lo sguardo lungo tipico dello scrittore: non è mai realmente lì con te, ma quando c’è, tiene gli occhi bassi per non distrarsi, per pensare meglio. Ha una parlantina rapida e spedita, ma i termini che utilizza sono accurati, calibrati semanticamente. Di una parola tiene in considerazione l’etimo, più che il significato comune, come chi, per anni, ha speso la propria adolescenza e oltre sui dizionari di greco e latino. Concludo l’intervista chiedendole perché alcuni definiscono la sua scrittura “abissale”, termine che mi sembra più adatto a un Cormac McCarthy o a Ágota Kristóf, piuttosto che a lei: “Sono d’accordo – sorride – non mi sento abissale”.