Un anno dopo Charlie Hebdo: Libertè, Irrévérence, Non violence
Interno, giorno. Redazione di Fanpage.it. Mentre disegno, con un occhio alla rassegna stampa, nella redazione di un altro giornale due uomini armati freddano metodicamente 12 persone, 5 delle quali di lì a poco si sarebbero messe a disegnare anche loro. Le immagini degli spari e del caos arrivano sul mio schermo praticamente in tempo reale. Chiudo la rassegna stampa, cestino quello che stavo facendo, fisso il monitor per un paio di minuti. Poi comincio un nuovo disegno.
Interno, giorno. Redazione di Fanpage.it. Mentre disegno, con un occhio alla rassegna stampa, squilla il telefono.
"Ciao. Non posso parlare adesso. Sto facendo una vignetta sul terrorismo". Qualche secondo di silenzio. Visualizzo all'altro capo del telefono mia madre, accigliata, che sospira. Poi, in tono grave, arriva la risposta: "Stai attenta a quello che fai."
Queste due irrilevanti scenette quotidiane riassumono in modo abbastanza chiaro quanto sia cambiata la percezione del mestiere che faccio dal giorno degli attentati a Charlie Hebdo. Da figura innocua, un po' naïf, immersa in una dimensione futile ed infantile, la cui professione viene considerata con sufficienza o tutt'al più con educata indulgenza ("professione"? non verrete mica a dirmi che fare scarabocchi è un lavoro?), il disegnatore è stato sbalzato dalle retrovie in prima linea: in trincea, tra coraggiosi ed eroi, coltello (ops, matita) tra i denti. Pronto a tutto, anche alla morte. Guardato ora con ammirazione, stima, o al contrario, in quanto pericolo per se stesso – e quindi, di riflesso, per chi lo circonda – con diffidenza, o addirittura con sospetto.
Naturalmente voi ed io sappiamo che è tutta un'enorme idiozia. Sulle prime, trascinati dall'onda emozionale provocata da eventi tanto tragici, non potevamo accorgercene. È il guaio di dover considerare gli eventi storici guardandoli dall'interno: non puoi essere lucido.
Un'ora dopo la strage eravamo tutti Charlie, poeti e navigatori: fieri, guasconi, pronti ad irridere uomini e dèi in nome della satira che rende liberi; il giorno dopo ci siamo resi conto di non ricordarci poi tanto bene cosa fosse la satira e ci siamo guardati con meno simpatia dicendoci aspetta un attimo, mò non affrettiamo le cose (non ho nessuna intenzione – nè alcuna autorevolezza per farlo, tra l'altro – di mettermi in cattedra a dare lezioni di satira: troverete risposta a tutte le vostre domande chiedendo al tizio col cappello da cowboy, o a questo signore qui); due giorni dopo abbiamo effettivamente visto alcune delle vignette più famose pubblicate su Charlie Hebdo e ci siamo indignati gridando a gran voce eh ma che schifo, cosa sono queste porcherie, guarda lì, tutti nudi ad ammucchiarsi, e poi le parolacce, ma dove andremo a finire signora mia.
Tre giorni dopo, stizziti per le continue interferenze del problema terrorismo nel nostro tran-tran quotidiano, abbiamo cominciato a pensare che però anche ‘sti Charlie, che volgarità, e poi prendersela proprio con i musulmani che si sa come sono fatti, non potevano sfottere i buddhisti che tanto chi li vede mai, saranno giusto Richard Gere e altri 4-5 amici suoi. Sei giorni dopo ci siamo resi conto che Charlie Hebdo sfotte anche i cristiani, ci siamo offesi moltissimo e abbiamo concluso vabbè se la sono cercata, e comunque non si scherza su ‘ste cose, e il pallone mio e decido io chi gioca, chi è satira, chi può scherzare e chi no e su cosa.
Insomma, nel giro di un paio di settimane quello che poteva essere un dibattito serio sulla satira, la censura e la libertà d'espressione è finito nella mistificazione più totale – come sempre succede quando si mettono a parlare gli scemi, cioè noi – e il buon senso è stato risucchiato nel girone infernale dei talk show sulla nostra libertà, le nostre tradizioni e la nostra cultura (mai quelle degli altri, non sia mai potessero sorgere delle opinioni contrastanti), degli approfondimenti scritti e orali sull'appassionante tema "Islam sì, Islam no, Islam gnamme", delle immancabili perle der webbe (è colpa dei migranti che ci invadono per sterminarci e noi gli regaliamo la casa e il lavoro a 2000 euro al mese, vergognaaaa!) e di chi approfitta in malo modo e in malafede della confusione per rubare e spartirsi una fetta di attenzione e di torta.
Un anno dopo l'attacco armato e la morte di 12 persone le vignette di Charlie Hebdo fanno ancora discutere, vengono criticate, condannate, esattamente per gli stessi motivi per cui se ne discuteva e le si condannava prima. Per il giornale, è una vittoria; per noi, la dimostrazione che nulla è cambiato: non abbiamo imparato niente di nuovo, nè sulla satira, nè sulla libertà d'espressione, nè sul rispetto delle opinioni altrui.
"Bisogna rispettare i limiti della decenza e non offendere nessuno". Per confutare questa ed altre mille frasi che vengono erte come baluardi contro chi vuole essere libero di parlare, pensare e comportarsi nel modo che ritiene più opportuno secondo coscienza, basterebbe ricordarci che fino a qualche annetto fa "i limiti della decenza" stabilivano che le donne non avessero diritto al voto; che i coniugi non dessero scandalo divorziando, condannandosi invece ad una vita di frustrazioni ed infelicità familiare; basterebbe pensare che ancora oggi qualche residuato di medioevo pretende di vietare il matrimonio alle coppie omosessuali, essendo l'omosessualità ancora considerata da alcuni una devianza, una perversione pericolosa da curare o nascondere.
"I limiti della decenza" e "il comune senso del pudore" non sono nient'altro che convenzioni sociali e culturali, destinate (per fortuna, nella maggior parte dei casi) a dilatarsi, smussarsi e cambiare nel tempo.
Ogni opinione può offendere o essere offesa da quella altrui, è uno dei rischi della comunicazione; ecco perchè usiamo il linguaggio come strumento per calibrarci e metterci entrambi sullo stesso piano. Lo stesso atto di scegliere alcune parole piuttosto che altre e disporle in un determinato ordine per scrivere questo articolo è, in un certo senso, autocensura.
La satira è una "offesa" consapevole e nonviolenta: si fa beffe della nostra parte intransigente, quella che sorveglia e difende convinzioni (religiose e politiche) e tabù (sessuali) radicati in noi in modo così profondo che difficilmente siamo disposti a metterli in discussione. E' per questo fa ridere, ed è per questo che è libera e liberatoria: è il luogo del ribaltamento anarchico del "giusto", del "corretto", dell'"appropriato": il nostro piccolo spazio di ribellione verso l'altro e verso noi stessi.
Se fossimo un po' più allenati all'autocritica e all'autoironia saremmo meno suscettibili all'irriverenza della satira, e più attenti alla sensibilità altrui, anche: forse riusciremmo a ricordarci che è nella natura della comunicazione il rischio dell'incontro/scontro tra i due soggetti comunicanti, che ogni libertà che ci prendiamo può essere percepita dall'altro come sbagliata, pericolosa o offensiva.
Che si può offendere con o essere offesi da un'opinione, un libro o una vignetta, e basta sorriderci su per evitare la fine del mondo. Magari accettando la sfida della satira di entrare nel gioco, e rispondendo per le rime con una battutina arguta.