Tra un annuncio e un’inaugurazione la cultura sanguina da anni
Abbiamo avuto un ottimo Ministro alla Cultura. Se ne è letto poco, qualche resistente provava ad urlarlo su twitter ma Massimo Bray è stato forse uno dei migliori ministri (e sicuramente il migliore di quel grigissimo governo Letta) della nostra Repubblica. Perché? Perché è uomo di cultura e competente. Ed essere competenti e di cultura in questo Paese significa rischiare spesso di risultare incompresi, sterilizzati come siamo alla bellezza da questi ultimi vent'anni di televisivite acuta, di sacerdoti del banale e di sagra della risata grassa.
Un Paese ammalato dal punto di vista culturale si riconosce quando è incapace di mettere insieme diritti, scuola, università, bellezza, monumenti, patrimonio museale, cinema, teatro, danza, architettura, sistema bibliotecario e tutto il resto: perché è cultura anche (e soprattutto) riuscire a maturare uno sguardo d'insieme e avere gli strumenti fondamentali per una responsabile chiave di lettura collettiva del presente. Noi intanto siamo il Paese che in ambito culturale ha più dirigenti che funzionari, molti i saccenti, troppi gli ignoranti.
Pompei inaugurata in pompa magna (con la solita annunciazione metallizzata del turborenzismo) e poi chiusa il giorno dopo è solo l'ultimo caso di una desolante serie di piccoli ma sistematici fallimenti di beni culturali gestiti con dilettantesco piglio: dal Colosseo che si sbriciola mentre diventa un boccone prelibato per possibili sagre circensi, a musei diventati salvadanaio personale di qualcuno, agli innumerevoli beni lasciati al degrado (il caso della Reggia di Carditello potrebbe esserne un simbolo) fino ad arrivare all'ultimo allarme lanciato sulle modifiche del DDL Madia.
Probabilmente sarebbe miope oggi accusare solo il Ministro Franceschini senza aprire lo sguardo allo smantellamento generale degli ultimi decenni dove, non so se vi è capitato di notarlo, anche la scuola e lo spettacolo dal vivo sono stati chirurgicamente smutandati; certo questo è un Paese che non ha la cultura (e la classe dirigente) capace di difenderne la bellezza. E non si tratta semplicemente di vezzi da caffè letterario quanto piuttosto una disabitudine alla bellezza che lascia vivere tutti in un Paese più brutto, sporco, disordinato, costruito senza logica né rispetto.
Chi viaggia per studio o per lavoro fuori dall'Italia incontra luoghi e piccole città senza nessuna particolare bellezza dove il monumento principale è la cura. Cura delle cose contro il tempo, contro la cattiva gestione e contro la maleducazione: una cura insita in tutti i cittadini perché della "cura" ci si occupa come materia civica ed etica fin dalle scuole. E' la differenza tra chi cresce pensando "tanto non è mio" e chi invece considera il bene pubblico "anche mio" e quindi bene comune non perché pubblico ma perché "in comune" tra tutti.
Eppure "preoccuparsi" è un verbo bellissimo: contiene tutta la meticolosa attenzione di chi si "occupa prima" di qualcosa o di qualcuno per avere in qualsiasi tempo e situazione i mezzi per custodirlo. "Preoccuparsi" da noi, invece, è diventata una debolezza di cui i nostri politici si vergognano: "io non mi preoccupo, quando sarà ci occuperemo anche di questo" disse un nostro Ministro alla Cultura qualche anno fa, scambiando per "machismo politico" quella che era una confessione di ignoranza.
Così chiamiamo cultura ciò che è svago sotto spoglie promozionali, scambiamo il sapere per ciò che si riesce a mostrare di sapere, dispensiamo consigli e teniamo lezioni considerando lo studio un vezzo antieconomico, giudichiamo tutto e tutti con un metro costruito soprattutto sulla rabbia o sulla venerazione, abbiamo la tavolozza con il pensiero bianco e il pensiero nero e abbiamo perso il palato per sentire le sfumature in cui ha le radici la cultura di un popolo o di un paese. E siamo finiti per avere assessori alla cultura, ministri alla cultura e bilanci della cultura che sono i feticci laici di una devozione che si finge di avere.
Per questo forse non ce ne accorgiamo nemmeno che la nostra sconfitta è scritta a chiare lettere, scritta in tutte le lingue anche su quelli che sembrano semplicemente due anonimi cancelli di Pompei.