"Finalmente l'alba" di Saverio Costanzo (che torna alla regia dopo il successo de L'amica geniale) non lascia alcun dubbio: è destinato a chi ama il cinema a tal punto da arrivare a detestarne le parti peggiori e a coglierne le contraddizioni senza provare alcun senso di colpa. Non si culla nella fascinazione ma scava fino in fondo, fino a svelare la sua maschera più beffarda e sofferente, come si fa con tutti i grandi amori. Gli occhi sognanti che si muovono dietro le quinte di un set a Cinecittà degli anni 50 sono quelli di Rebecca Antonaci, che riesce a restituirsi come spettatrice e guida in modo meravigliosamente inconsapevole. È un fiore delicato che viene notato per la sua grazia, si chiama Mimosa ed è una ragazza romana abituata a sognare vite patinate dei divi di Hollywood tramite la lettura delle poche riviste che può permettersi con la sorella Iris (Sofia Panizzi).
Su quelle riviste, le dive da Alida Valli (Alba Rohrwacher) a Josephine Esperanto (Lily James) iniziano ad essere una fonte di ispirazione, un'evasione dalla realtà che assume i contorni di una realtà onirica. Mimosa si sveglierà e la toccherà con mano quando verrà preferita alla sorella come comparsa del peplum su Cleopatra, di cui la Esperanto è protagonista. A iniziarla agli studi di Cinecittà, avvolti nel mito e nel mistero, una feroce leonessa, che la accompagnerà per tutto il film in una simbologia che si rivelerà in tutta la sua potenza solo alla fine.
Mimosa diventa il passatempo di Josephine, che è annoiata dalla vita e ormai assuefatta a qualsiasi forma di adulazione. Cercherà di trasformarla nella poetessa svedese Sandy per puro divertimento e arriverà, a poco a poco, a vederla come una minaccia. A brillare della sua luce riflessa, il co-protagonista Sean Lockwood (interpretato dalla star di Stranger Things Joe Keery), attore insicuro e completamente succube, e il critico d'arte italoamericano Rufo Priori, interpretato da Willem Dafoe. Un vero e proprio Caronte nel regno degli inferi.
E si parla di inferno nonostante tanta luce perché Saverio Costanzo non si risparmia mai, indaga nell'animo umano corrotto dai riflettori e completamente genuflesso al potere dei media. Neutralizza qualsiasi coordinata perché si resti ingabbiati nelle sensazione che il cinema sia una dimensione totalizzante, a tal punto da non riuscire più a distinguerlo, da diventare cinema nel cinema. Anche il parallelismo della storia di Mimosa con quella dell'omicidio di Wilma Montesi, 21enne bellissima e con aspirazioni nel mondo della recitazione, trovata morta su una spiaggia di Torvajanica nel 1953, viene introdotto con un cinegiornale e, man mano che la trama prenderà respiro, non sembrerà più così casuale.
Si rimane rapiti da questo lungo viaggio che dura solo una notte, dai silenzi e dai gesti fugaci, dalle luci e dalla fotografia che immortalano una Roma eterna e dannata. Con Mimosa, i sentimenti sfuggono alla definizione e si rincorrono nel fallimentare tentativo di espressione, essendo per gran parte del tempo muta, privata delle battute per consentire al suo corpo e al suo sguardo di veicolare qualsiasi emozione. Alla fine si esce dal cinema, lo si vede dall'alto e ci si accorge all'improvviso che il film non è nemmeno finito. Figuriamoci sui titoli di coda, quando bisognerà solo mettere ordine e fare spazio alle proprie interpretazioni. Del cinema e pure della vita.