Ora scoppia la polemica politica: i partiti di tutti i fronti alzano la voce dopo che la ministra Pinotti al margine dell'assemblea dell'ANCI ha dichiarato che anche l'Italia parteciperà all'operazione Nato per presiedere il confine lettone turbato dai continui movimenti di Putin nella zona balcanica. La ministra ha precisato che saranno circa 140 i soldati italiani impegnati nell'operazione di cui ha parlato nei giorni scorsi il segretario generale dell'Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg e, nonostante le rassicurazioni del ministro degli esteri Paolo Gentiloni, sembra difficile non intravedere in questa decisione un inasprimento dei rapporti con la Russia di Putin. Lo stesso Putin, nelle scorse ore, ha parlato di "aggressione" subita dalla NATO.
E fa niente se l'incendio divampato oggi in realtà si riferisce a una decisione che risale a mesi fa (siamo agli inizi di luglio) e ancora una volta la politica appare "distratta" dall'agenda dell'indignazione facile: oggi (e forse durerà anche domani) tutti diventano esperti di questioni balcaniche. Per questo noi abbiamo provato a parlarne con chi quelle zone (e le loro guerre) le studia da anni: Michele Nardelli è membro dell'Osservatorio Balcani Caucaso, il più importante centro di ricerca e informazione sulle tematiche dell'Europa di mezzo in Italia e a livello europeo. Gli abbiamo chiesto di raccontarci lo stato dell'arte di quelle zone:
«L'Europa sta facendo passi indietro vistosi – ci dice- e anche la decisione di spedire un nuovo contingente militare sul confine lettone rientra in una politica non di inclusione e che non ha nulla a che vedere con quella che dovrebbe essere la politica europea»
In che senso?
«Bisognerebbe avere la forza di sviluppare ragionamenti e politiche di vicinanza. Queste truppe, tra l'altro, sono truppe dal valore puramente simbolico, non reale. I Paesi della Nato ancora una volta ci mettono del loro nel consolidare una divisione confinaria sempre più anacronistica»
Ma la NATO dice di dover intervenire di fronte alle intemperanze di Putin…
«Le visioni di Putin e dell'Unione Europea sono perfettamente speculari. Siamo ancora nel paradigma novecentesco e l'Europa ormai ha rinunciato a esser quello che avrebbe dovuto essere. La Pinotti dice "stiamo discutendo di mettere in comune alcuni servizi di polizia" e poi subito aggiunge "ma non stiamo mica parlando di esercito europeo". Di queste cose ne parlava già De Gasperi, per intendersi: gli eserciti nazionali costano 260 miliardi di euro ogni anno. Se penso a come potrebbero essere utilizzati magari quei soldi… Intendiamoci: anche per un coordinamento di politica militare ma questo presuppone una politica estera veramente europea che oggi non esiste perché tutti gli stati sono preoccupati e occupati della propria sfera d'influenza.»
Tutti ci dicono che questa Europa non funzioni ma pochi sembrano avere le idee chiare su cosa realmente dovrebbe essere…
Certo. Tutti a parole si dicono europeisti. L'Europa ha senso se c'è trasferimento di poteri verso il basso e verso l'alto. L'Europa dovrebbe in realtà ridisegnare regioni e territori. In un passo del manifesto di Ventotene, che tutti citano piuttosto a caso, si dice che "il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani". Oggi questa messa in discussione non esiste e quindi si continua con il paradigma della difesa.
Molta stampa e molti osservatori internazionali danno un prossimo conflitto con la Russia praticamente per certo. Troppo allarmismo?
«La cultura politica della classe dirigente di quei Paesi è inevitabilmente di questa matrice. I signori della guerra sono quelli che hanno vinto negli anni '90 e oggi sono legittimati ad alzare il tono nella totale indifferenza dell'Europa. Basti vedere come il leader della Repubblica Ceca in occasione dell'ultimo referendum sia andato a legittimarsi più da Putin piuttosto che dalla Nato. La regione dei Balcani è una regione lascia a sé stessa. Si continua a parlare di politiche di inclusioni ma concretamente non succede nulla. I bosniaci, che sono un popolo molto ironico, dicono "entreremo nell'Europa solo quando l'Europa non ci sarà più". Non si riesce a capire cosa è accaduto negli ultimi anni: la creazione di 8 nuovi stati è fuori dal tempo e alla fine ha portato semplicemente a Paese off-shore. Lì siamo nella postmodernità. Le guerre non finiscono se non c'è un processo di elaborazione del conflitto. Questi sono criminali, le questioni etniche non hanno nulla a che vedere con le dinamiche del conflitto.
Ma a che punto siamo in Italia con la politica della pace?
«Perché esiste un politica della pace? Il pacifismo non può permettersi di diventare banalmente la risposta a quelli che giocano alla guerra e non si può svegliare quando scricchiolano i carro armati. Per una cultura della pace ci vuole una propria agenda di pensiero, di lavoro altrimenti si diventa un semplice ingranaggio che viene messo in conto. Qui non c'è capacitò di visione e il problema non riguarda solo la politica in senso lato ma anche tutti i corpi intermedi: associazioni, comitati e cittadini»