Mario Vargas Llosa: la civiltà dello spettacolo e quel che rimane della cultura
Fra le nuove offerte in libreria potete trovare anche La civiltà dello spettacolo (Einaudi), una raccolta di articoli e riflessioni di Mario Vargas Llosa, romanziere ed intellettuale militante, la cui opera, dopo la vittoria del Nobel nel 2010, è sempre più tradotta anche qui da noi. Llosa ha una mente lucida, il suo modo di ragionare ed articolare il pensiero è essenziale, chiaro, semplice. Questa incredibile semplicità ci sembra il frutto di un vissuto molto particolare che, oltre la forma, traspare chiaramente dalle tesi espresse ne La civiltà dello spettacolo.
La serie delle sue riflessioni comincia con una questione semantica: che vuol dire la parola cultura? I saggi cui Vargas Llosa esplicitamente si rifà sono tre, non a caso, tutti scritti fra gli anni cinquanta e gli anni settanta: Appunti per una definizione della cultura di Thomas Eliot (1948), Il castello di Barbablù di George Steiner (1971) e, ovviamente, la società dello spettacolo di Guy Debord (1967). L’autore osserva che questi tre saggi, composti a cavallo dei due conflitti mondiali e del sorgere dell’era ‘postmoderna’, sentono l’esigenza di ridefinire il concetto di cultura osservando l’inattualità del signficato tradizionale. La cultura, infatti, tra gli anni 50 e gli anni 60, ha subito un profondo, radicale distacco dalla società, si alienata da essa, con l’avallo, per di più, dei suoi principali esponenti. Il titolo ‘La civiltà dello spettacolo’ vuole quindi sottolineare la filiazione di queste riflessioni, proseguendo la diagnosi di un processo storico ormai più che palese.
Tutta questa raccolta di articoli è in definitiva un’analisi di questo violento distacco che ha visto, a parere di Vargas Llosa, anche le menti più brillanti della generazione del sessantotto smarrirsi di fronte alla speculazione nichilistica di una società sconfitta da un’ondata asfissiante di immagini che avrebbero preso il posto delle idee. I nomi con cui polemizza sono molti: dal compagno di studi Jean Baudrillard, ricordato con affetto come un uomo dalla dialettica impareggiabile, a Michel Foucault, di cui si mette sotto accusa l’ambiguità di una celebre tesi enunciata ne Le Parole e le cose, ”l’uomo non esiste”.
Cosa intendeva Foucault scrivendo che “l’uomo non esiste”? Intendeva dire che in realtà l’uomo è qualcosa di incorporato in una serie di discorsi che lo trascendono e lo contengono: la politica, l’educazione, il diritto e simili. L’uomo non esiste perché la sua soggettività vi è ingabbiata. Fra gli anni sessanta e gli anni ottanta lui ed altri intellettuali si sono sforzati di demolire questo apparato di discorsi, come forme di coercizione.
L'autore sembra ammirare la capacità di analisi di Foucault in modo enorme ma, secondo noi giustamente, scorge un vizio di fondo della speculazione foucaultiana: demolendo, storicizzando tutti i discorsi attraverso i quali si è imposto il potere, Foucault si illude di sconfiggerlo senza rendersi conto che l’uomo è invischiato nel segno, (portatore di civiltà, come sembra talvolta suggerire l'autore) molto più di quanto immagina. E così, dal perdersi definitivo di ogni valore attribuito ai discorsi sociali -la scuola, la politica, la società- è venuto fuori esattamente l’uomo postmoderno: un uomo in balìa essenzialmente di un rapporto stimolo-risposta con l’esterno, il cui universo concettuale è impoverito a dismisura.
Di qui tutte le prove che Vargas Llosa porta per confermare le sue idee, analizzando il giornalismo light (il cosiddetto infotainment), la politica light, la letteratura light, la cultura light: tutti simulacri che l’uomo postmoderno, in virtù della democraticità, della libertà e dell’emancipazione della società di massa, ha avallato nella società occidentale.
Ne viene fuori una tesi paradossale eppure attualissima: esattamente uno dei massimi momenti di espressione della cultura del Novecento, quello che ruota attorno al sessantotto, ha avallato implicitamente il processo di impoverimento culturale e sociale già in parte diagnosticato da Eliot, Steiner, Debord. E lo ha fatto immaginandosi pensiero puro, e non capendo che la questione non è tanto che “l’uomo non esiste” come dice Foucault, ma piuttosto è che “l’uomo è ciò che fa di se stesso” (per usare una felice espressione di Plessner). E la cultura è ciò che l'uomo fa di se stesso.
Se questa è la rigida argomentazione di fondo, come già dicevamo, questo volumetto di Vargas Llosa non ha la forma di un saggio critico: al contrario, molti pezzi sono brani di pura riflessione intellettuale, ma altrettanti sono una vera e propria ricognizione nel passato e nel presente, ritratti dello stato di cose nell’era “post-culturale” in cui, con l’erosione delle grandi narrazioni tanto contestate negli anni sessanta, ne emerge il quadro di un abbrutimento generale collettivo a mano a mano che grandi strumenti umani che avevano costituito la cultura d’occidente vengono meno. I ritratti vividi, in cui la natura dello scrittore emerge un po’, non sono quindi pochi: a partire dall’aneddoto di un folle testo teatrale scritto da Picasso dal titolo Il desiderio preso per la coda fino ad un tassista peruviano fervido sostenitore della figlia del dittatore Alberto Fujimori perché quest’ultimo, a suo dire, aveva rubato solo “il giusto”.
La civiltà dello spettacolo è un testo vivamente consigliato non tanto e non solo per il peso delle sue riflessioni che, sebbene nel modo degli articoli di giornale e non dei saggi, ci appaiono comunque attuali e pregnanti; ma soprattutto perché testimoniano in fieri il percorso di una mente complessa, che ha attraversato un periodo di sconvolgimenti culturali, senza rinunciare a osservarli con distacco e lucidità.