Jobs Act, con la riforma del lavoro sono aumentati i licenziamenti disciplinari
I licenziamenti disciplinari, ovvero quelli per giusta causa e giustificato motivo, sono cresciuti del 28 per cento nei primi otto mesi del 2016, passando dai 36.048 dello stesso periodo del 2015 a 46.255 dell'anno in corso. È questa, probabilmente, una delle prime conseguenze del Jobs Act, la riforma del lavoro, promossa ed attuata in Italia dal governo Renzi, attraverso una serie di provvedimenti legislativi varati tra il 2014 ed il 2015. Per capire se questo dato ne sia davvero un effetto, il quotidiano La Stampa ha messo a confronto le storie di alcuni lavoratori che durante gli ultimi mesi hanno perso il posto con esperienze sul campo di consulenti, avvocati, economisti ed imprese.
A sostenere questa tesi, tra gli altri, c'è l'avvocato Giorgio De Stefani, che da trent'anni a Roma offre assistenza legale civile anche nel diritto del lavoro. "Il Jobs Act rappresenta un forte deterrente nelle relazioni aziendali – ha spiegato – e ciò ha indubbiamente provocato un cambio di paradigma. Soprattutto in aziende medio-grandi in crisi, nelle situazioni nelle quali prima si soprassedeva o si cercava una mediazione, adesso il datore di lavoro è più portato ad andare per le spicce perché dispone dello strumento tecnico per poterlo fare. Si tollera di meno, specie se non c’è un rapporto di conoscenza col dipendente". In questo modo, dunque, crescono i licenziamenti per ragioni disciplinari, quelli cioè sui quali è intervenuto il Jobs Act con il contratto a tutele crescenti.
Molti di questi casi sono arrivati in tribunale o all'attenzione dei sindacati. Tra questi, come riporta il quotidiano di Torino, c'è quello di Domenico Rossi, che per più di 30 anni ha lavorato come cassiere in un noto supermercato nel centro di Roma, licenziato senza preavviso lo scorso 3 giugno. Secondo l'azienda "è stato sorpreso, con merce non regolarmente acquistata, nell'atto di lasciare il punto vendita". "Quando i poliziotti hanno visionato le immagini delle telecamere interne – si è difeso il dipendente -, non hanno trovato niente di irregolare. Mi hanno perquisito e lasciato in piedi per due ore davanti ai clienti che passavano, poi mi hanno ripetuto più volte che l’unica cosa che mi restava da fare era presentare immediatamente le mie dimissioni per non andare incontro a conseguenze peggiori".
Una storia per certi versi molto simile è quella di A. A., che per 28 anni ha lavorato come cameriere e poi come maitre in uno storico albergo della Capitale. Nel 2011 aveva usufruito di un periodo di aspettativa non retribuita in seguito alla fine del suo matrimonio, ma una volta tornato in servizio è cominciato il suo incubo. Finché il suo rapporto di lavoro è terminato lo scorso agosto: "L'azienda sostiene di avere testimoni per dimostrare che sono stato trovato ubriaco in servizio – racconta A. – e che mi sono addormentato mentre aspettavo le ordinazioni ai piani. Ma non è vero, dovevano tagliare il personale e le spese, così sono finito io nel mirino".
L'econimista Giuliano Cazzola, esperto di lavoro e previdenza, ha commentato le due vicende: "Rossi è accusato di furto e A. di ubriachezza in servizio: mancanze gravi se accertate, ma in entrambi i casi i datori di lavoro sembrano avere prove piuttosto labili. Nel Jobs Act c'è uno scambio tra contratti più stabili e minore rigidità nella risoluzione del rapporto di lavoro. Finora i giudici sono stati di manica larga anche di fronte a responsabilità vere dei lavoratori".