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Industria petrolifera del Mare del Nord al collasso, ma anche no

La guerra dei prezzi petroliferi rischia di far collassare l’industria petrolifera del Mare del Nord. E’ il grido d’allarme dei piccoli produttori inglesi, ma le cose non stanno proprio così e soprattutto non dipendono solo dall’attuale calo dei prezzi…
A cura di Luca Spoldi
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La confusione resta massima sotto questi cieli, specie per quanto riguarda le possibili ripercussioni “non intenzionali” della guerra sui prezzi petroliferi avviata dall’Opec ufficialmente per recuperare quote di mercato che i produttori di “shale oil” americani, la cui produzione è in forte espansione quest’anno e tale rimarrà l’anno venturo, hanno sottratto all’organizzazione viennese che riunisce dodici paesi a cui fanno capo il 78% delle riserve mondiali “convenzionali” di petrolio e il 50% di quelle di gas naturale ma che finora ha colpito in particolare la Russia (che estrae petrolio a prezzi tra gli 80 e i 110 dollari al barile, non ha una grande base industriale ed il cui Pil dipende per il 50% circa dalle esportazioni di petrolio, gas naturale e idrocarburi), ma che secondo alcune allarmate dichiarazioni dei produttori britannici rischia di mettere al tappeto anche l’industria petrolifera del Mare del Nord.

Per la verità l’allarme, rilanciato con forza dal Daily Mail, non trova particolari riscontri sul mercato. Da luglio a oggi, ad esempio, mentre il rublo russo perdeva circa il 50% del proprio valore contro dollaro ed euro, la sterlina si è mossa lateralmente contro l’euro, oscillando tra 0,7 e 0,8 contro euro (oggi ha chiuso a 0,7844), perdendo contro il dollaro circa il 10% (è passata da 0,58 a 0,64, con una chiusura odierna a 0,6363). Più marcato il calo registrato dal titolo BP, principale produttore di petrolio e gas naturale britannico, che ha perso circa il 27% in borsa, ma a ben guardare l’italiana Eni nello stesso periodo è andata persino peggio, lasciando sul terreno il 34% del proprio valore. Mentre la Norvegia vede la corona perdere colpi, col governo che ha già segnalato i rischi di una dura recessione se lo scenario non cambierà.

Approfittando dell’attenzione mediatica i “boss” dell’industria petrolifera di Sua Maestà, come Robin Allan, presidente di Brindex (l’associazione britannica degli esploratori indipendenti, ossia delle piccole compagnie petrolifere inglesi) e numero uno di Premier Oil, stanno lanciando allarmi segnalano come sia ormai impossibile estrarre petrolio con profitto dai pozzi del Mare del Nord e vi sia dunque il rischio che per limitare le perdite le aziende debbano licenziare fino a 35 mila dipendenti, chiudere gli impianti più vecchi e meno redditizi e rinviare nuovi progetti esplorativi. Ma andrebbe ricordato che l’area del Mare del Nord è in pieno sfruttamento sin dagli anni Settanta e ha già visto calare, tra il 2010 e il 2013, di circa il 38% la produzione di petrolio e gas naturale a 1,43 milioni di barili equivalenti di petrolio al giorno, il minimo dal 1977, avendo toccato il picco produttivo nell’ormai lontano 1999.

Certo, la guerra dei prezzi attuale, che l’Opec pare voler portare avanti fino a quando i prezzi non saranno scesi sotto i 50 dollari al barile e forse persino sotto i 40 dollari al barile (contro gli odierni 55,7 dollari al barile del Wti texano e i 60,5 dollari al barile del Brent del mare del Nord, che ancora a fine giugno oscillavano sopra i 105 e i 110 dollari, rispettivamente), secondo uno studio di Goldman Sachs diffuso questa settimana sta mettendo a rischio nuovi progetti di esplorazione per quasi mille miliardi di dollari, ma quelli maggiormente esposti sono i progetti di sfruttamento dei giacimenti dell’Artico (che tante polemiche avevano già suscitato per l’elevato rischio ambientale connesso), nelle acque profonde e nelle sabbie scistose in Canada e Venezuela.

A voler stilare una classifica dei produttori e dei progetti a rischio, secondo Goldman Sachs in cima alla lista restano i giacimenti marginali di idrocarburi pesanti in acque profonde, ma anche il maxigiacimento di Kashagan a cui sta lavorando da anni l’Eni, che hanno punti di pareggio tra i 120 e i 160 dollari al barile. La maggior parte dei giacimenti russi, escluso quello scistoso di Bakken, è profittevole solo con prezzi tra i 90 e i 110 dollari e la stessa cosa è vera per la maggior parte dei giacimenti dell’Angola e di alcuni giacimenti del Golfo del Messico. Produrre dai giacimenti texano di shale oil di Eagle Ford, come pure la restante parte dei giacimenti russi, è conveniente solo se il prezzo non scende sotto gli 80 dollari al barile. Nel caso del giacimento di Campos, in Brasile, del giacimento russo di Bakken o di quello di Permian nel Delaware e dei giacimenti di petrolio “pesante” del Golfo del Messico si può accettare anche un prezzo di 70 dollari e continuare a produrre.

I più vecchi e meno proficui giacimenti del Mare del Nord (ma anche dei giacimenti di idrocarburi “leggeri” del Golfo del Messico dei giacimenti scistosi dell’Argentina) iniziano ad essere non redditizi con quotazioni petrolifere sotto i 60 dollari al barile e quindi ora stanno producendo più o meno pareggiando i costi. Iniziano a preoccuparsi ai prezzi attuali anche i migliori giacimenti di petrolio “pesante” canadese, una parte degli impianti nel bacino di Santos, in Brasile, ed ulteriori impianti nel Golfo del Messico che estraggono petrolio a prezzi tra i 50 e i 60 dollari al barile. Riescono infine a estrarre fino a 40 dollari al barile o anche leggermente meno i migliori tra gli impianti del Golfo del Messico e del bacino di Santos, mentre i giacimenti in Kenya e in Kurdistan dormono sonni tranquilli, visto che estrarre lì costa non più di 20-30 dollari al barile a seconda del singolo impianto.

In realtà la crisi petrolifera, per quanto possa essere più o meno “pilotata dalle decisioni del “falchi” dell’Opec come l’Arabia Saudita (che con la sua politica commerciale aggressiva sta vendendo la produzione futura “a sconto”, potendo del resto disporre di sufficienti risorse economiche per continuare a produrre in perdita anche per anni), dovrebbe stabilizzarsi in modo semi-automatico nel corso dei prossimi mesi, tanto che gli analisti prevedono prezzi in ripresa già nella seconda metà del 2015 e poi più consistentemente nel 2016-2017. In parte il risultato sarà ottenuto dalla chiusura degli impianti meno efficienti e dei produttori marginali (anche ma non solo e non per primi quelli del Mare del Nord, come visto), in parte sarà condizionato all’andamento della domanda, che risente a sua volta da un lato dell’efficientamento dei processi produttivi, specialmente in Cina, oggi meno “energivori” che in passato, dall’altro della disponibilità di fonti energetiche alternative, come quella idroelettrica o quella eolica, che già oggi hanno raggiunto o superato la soglia di efficienza energetica o ci si sono di molto avvicinate, come nel caso degli impianti fotovoltaici di ultima generazione.

Ancora una volta più che guardare il dito, in questo caso il ribasso dei prezzi del petrolio di questi ultimi mesi, per capire cosa sta succedendo occorrerebbe guardare alla luna che il dito indica e la luna è rappresentata da un’economia mondiale che gradualmente sta diventando meno dipendente dal petrolio. Ma non è esattamente quello che tutti auspicavamo, a partire dall’Unione Europea che con la direttiva “2020” si era data l’obiettivo (che a inizio secolo pareva fin troppo “sfidante” ed ora pare più a portata di mano) di far salire al 20% almeno la produzione di energia da fonti alternative a quelle fossili?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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