Non è successo. E, al netto dei presunti funerali del Pd (ricordate il video in cui "i cittadini lucani" contestavano Epifani o il trionfalismo del Succede Tour?), c'era finanche da aspettarselo. Il Movimento 5 Stelle arretra in Basilicata (rispetto alle politiche), come era già avvenuto in Friuli, Venezia Giulia Valle D'Aosta e nella tornata di elezioni amministrative. Il punto è che il non voler ammettere che (anche) il risultato della Basilicata rappresenta una mezza sconfitta è un errore politico enorme, sia perché non consentirà l'apertura di una seria riflessione sul senso di progetti a medio – lungo termine (in un momento in cui la scissione interna al Popolo della Libertà ha nei fatti blindato il Governo), sia perché l'accontentarsi di "essere entrati nel fortino del Pd dopo soli 4 anni" (come scrive Tofalo) non è certamente il modo migliore per prepararsi alla "madre di tutte le battaglie", quella delle elezioni europee del giugno 2014 (che possono trasformarsi nel vero referendum sul Governo).
Eppure, trovare anche solo un minimo di delusione fra gli eletti grillini è operazione impossibile. La linea ufficiale è ben riassunta da un lungo post pubblicato dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio: "In Basilicata ha votato il 47% degli aventi diritto. Da oggi in Basilicata c'è un Presidente di Regione eletto, che rappresenta meno di un quarto della popolazione. Pittella (PD) rappresenta una minoranza dei lucani […] Al netto di questo, il dato di oggi del candidato Presidente M5S Pedicini in Basilicata (13%) si attesta poco sotto la media dei nostri candidati presidenti ottenuta a febbraio (16%), perciò lo reputo un ottimo risultato, soprattutto se pensiamo che a febbraio ci fu uno Tsunami Tour di dimensioni epiche, questa volta invece Beppe è stato solo due giorni in Basilicata (a Matera e Potenza), senza quindi il consueto "effetto calamita", per di più in una Regione devastata dall'emigrazione giovanile.
Insomma, non solo non è un mezzo flop, ma addirittura quella di Pedicini è una vera "impresa". Una linea che, lo diciamo con la massima stima per Di Maio, non convince affatto. Perché si basa su presupposti fragili. A partire dalla riflessione sull'astensione. Che è un problema (forse) che investe l'intera politica italiana e che in ogni caso (lo dimostrano analisi statistiche e flussi di distribuzione del consenso) non incide in maniera determinante su un campione sufficientemente ampio. In poche parole, nessuno può pensare di utilizzare il "non voto" come attenuante per un risultato elettorale deludente o asserire che l'astensione possa essere letta solo come rifiuto dell'esistente e dunque come legittimazione ulteriore di una forza che contesta il sistema stesso. Per citare Beppe Grillo in un suo vecchio spettacolo: "È assurdo pensare di dividersi schede bianche e nulle, manca poco e i partiti si divideranno pure i ‘vaffanculo' scritti sulle schede". Appunto.
Senza contare poi la questione della legittimità dell'elezione. Sbaglia Di Maio e sbagliano coloro che pensano che un eletto dal 47% degli aventi diritto (e votato dal 60% di questi) non rappresenti tutti i cittadini: è un errore concettuale, sostanziale, nonché una distorta concezione della democrazia rappresentativa. Magari converrebbe dare un'occhiata all'affluenza alle urne degli altri Paesi occidentali prima di lanciarsi in considerazioni del genere, ovviamente sempre nell'ammissione che disaffezione ed indifferenza dei cittadini sono dei limiti enormi della politica attuale.
C'è invece la questione della costruzione del consenso su base territoriale. C'è un lavoro, enorme, che richiede tempo, presenza, risorse e costanza sul territorio che il Movimento 5 Stelle ha creduto (e per molti versi crede ancora) di poter delegare alla "Rete" o affidare alla spontanea iniziativa dei cittadini. C'è la presenza nei vecchi luoghi della politica che i grillini sottovalutano, ma che invece pesa molto in termini di consenso elettorale, specie per quel che riguarda le amministrazioni locali. In questo campo è chiaro che il M5S sconti limiti strutturali, frutto anche di una precisa volontà politica (no alla struttura partitica tradizionale, ristrettezza delle risorse eccetera), nonché la concorrenza formidabile di vere e proprie macchine del consenso (con zone d'ombra e comportamenti al limite della legalità, certo), ma il risultato è spesso quello di candidati allo sbaraglio, non sorretti da una macchina organizzativa "pensata" per vincere.
Da qui alla questione della leadership e della classe dirigente il passo è breve. Perché non c'è dubbio che il concetto cardine dell'uno vale uno si sposi malissimo con la personalizzazione della politica e dello scontro elettorale, prodotto di vent'anni di berlusconismo (e non solo) e, più ad ampio raggio, delle leggi elettorali che vedono l'elezione diretta degli amministratori. Che l'elettorato voglia riconoscibilità, carisma e fiducia è cosa fin troppo chiara. Che, soprattutto quando si tratti di scegliere a chi affidare l'amministrazione della propria casa si tenda a privilegiare la conoscenza, l'usato sicuro, è concetto fin troppo esplicitato. E le alternative immaginate dal M5S finora si sono rivelate deboli, non convincenti: percorsi di individuazione delle candidature affidati a pochissimi eletti, spesso autoreferenziali e intervallati da problemi e polemiche (proprio il caso Basilicata ne è esempio lampante), costruzione della piattaforma programmatica affidata a meccanismi farraginosi e contraddittori, scelte comunicative che rimandano ad una polarizzazione del consenso, ad una radicalizzazione ideologica dello scontro che spesso sui territori non ha ragione di esistere.
E si ritorna al valore che ha una classe dirigente preparata e riconoscibile. Ecco, ne abbiamo già scritto recentemente, spiegando che a nostro modo di vedere la crescita qualitativa del M5S sia evidente, netta e decisamente preoccupante per gli altri partiti. E non è un caso che negli ultimi mesi Grillo e Casaleggio abbiano sancito una inversione di rotta, garantendo maggiore visibilità alle tante "intelligenze" del Movimento, anche grazie alla partecipazione a talk show e dibattiti televisivi. Il problema è che l'accreditamento ad ampio spettro richiede tempo e costanza, mentre al momento la vera arma di cui dispone il Movimento ha un nome e cognome ben preciso: Beppe Grillo. La sua credibilità, ma soprattutto la sua capacità di mobilitare migliaia di cittadini e spingerli ad un impegno concreto (con un effetto cascata difficilmente arginabile, si veda lo Tsunami Tour) sono semplicemente vitali per il progetto. Fondamentali per la costruzione del consenso, decisive per il suo consolidamento, insostituibili per la diffusione delle informazioni. È la gioia e la condanna del Movimento: dipendere in maniera quasi esclusiva dal suo leader, secondo quel modello di partito padronale che i grillini rifiutano ideologicamente e politicamente.