Ignazio Cutrò: “lo Stato è riuscito dove la mafia ha fallito: ho denunciato e ho perso tutto”
E' una storia che andrebbe messa nei libri di scuola quella di Ignazio Cutrò, testimone di giustizia e presidente della prima associazione nazionale che riunisce chi ha avuto il coraggio di denunciare per amore dello Stato: da quel buco di paese che è Bivona, nell'agrigentino, con le sue denunce ha dato il via all'operazione Face Off che ha portato all'arresto dei fratelli Panepinto, elementi della cosca mafiosa agrigentina. Uno di loro, Luigi Panepinto, era un compagno di classe di Cutrò, tanto per dare l'idea di come siano intrecciate le storie e quanto labili possano essere i confini.
Ignazio Cutrò era un imprenditore edile, un'impresa famigliare con mezzi e persone che sono il risultato della fatica di una vita, e come succede spesso per i testimoni di giustizia si è ritrovato presto nel vortice delle minacce, la vita blindata e le difficoltà di una scelta che in Italia spesso significa isolamento. A differenza di altri testimoni di giustizia però Ignazio ha deciso di restare lì, a Bidona, per "dare un segnale ai miei colleghi e ai concittadini, per dimostrare che lo Stato esiste e che denunciare è un dovere". Niente nomi di copertura e località protetta: Ignazio Cutrò è Cutrò prima delle denunce e Cutrò ancora oggi. Anche se, forse, qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto.
"Mi sono ritrovato con un debito altissimo nei confronti dell'INPS per dei contributi non pagati nel periodo del processo – mi racconta amareggiato – e ho dovuto chiudere l'impresa. Il Ministero mi aveva promesso di sistemare la questione, perché ovviamente io ero finito sotto scorta con tutta la mia famiglia, impegnato a testimoniare e come puoi immaginare isolato da tutti, e invece ho dovuto fronteggiare con le mie forze. Che ad un certo punto non sono più bastate". Mentre mi racconta la sua storia Cutrò mantiene la dignità di chi sa di essere comunque dalla parte giusta: "Su 150.000 euro di debiti accumulati ne ho ottenuti 20.000 incatenandomi davanti al Ministero dell'Interno. Per il resto ho dovuto fronteggiare tutto con le mie sole forze". L'azienda ormai è fallita. "Quello che non è riuscito a fare la mafia è riuscito allo Stato" mi dice.
Il problema sta tutto in una legge che non prevede aiuti economici per chi decide di rimanere nella propria località di origine e così chi potrebbe essere il simbolo di una lotta che si può vincere diventa un messaggio dannosissimo: "Pensa a quelli che vorrebbero denunciare – mi spiega – e vedono dove sono andato a finire io con la mia famiglia; è un favore alla mafia o no?". Difficile rispondere. "Se ne sono lavati le mani. Io non voglio aiuti dallo Stato, io volevo solo lavorare ma non mi è stato possibile". In effetti basterebbe veramente poco: un semplice emendamento di legge che preveda gli stessi diritti per i testimoni di giustizia in località protetta anche per coloro che decidono di restare dove sono. "Il Servizio Centrale di Protezione aveva capito che bisognava equiparare le categorie ma il Vice Ministro Bubbico (Vice Ministro all'Interno del Governo Renzi), nonostante le promesse, non ha mai mosso un dito".
Cutrò, in qualità di presidente dell'Associazione Nazionale Testimoni di Giustizia, ha ottenuto negli ultimi anni alcuni importanti successi: la Sicilia di Crocetta è stata la prima regione a legiferare per garantire un pubblico impiego ai testimoni come già succede per i famigliari di vittime di mafia e anche il Governo Letta ha legiferato in questo senso (pur avendo dovuto aspettare ben due anni per il decreto attuativo). "Ci hanno ridotto in miseria. – continua Cutrò – Nessuno si chiede come facciamo a sopravvivere? Il mese scorso ho rischiato il taglio della luce, evitato solo grazie all'aiuto di alcuni amici, ma il problema è solo rimandato: se non pago entro il 15 settembre sarà di nuovo la stessa storia".
Ovviamente ci sono stati anche uomini delle istituzioni che si sono dimostrati vicini, "penso a Rosario Crocetta o il Generale Pascali (che purtroppo non comanda più il Servizio Centrale di Protezione) – dice Cutrò – ma alla fine è il vice ministro Filippo Bubbico che ha gli strumenti per agire". Ma attenzione, mi dice Ignazio "io volevo solo fare l'imprenditore, solo questo. L'Associazione l'ho voluta creare mica per i miei interessi ma perché la mia storia serva ad evitare che si possa ripetere questo sbaglio". Forse, anche se Cutrò non lo dice, questa sua intraprendenza nel volere mettere in rete i testimoni di giustizia non è vista di buon occhio da chi nelle istituzioni preferirebbe un placido silenzio. "So che il Servizio Centrale di Protezione ha già contattato qualcuno per compilare una lista di possibili assunti".
Ma il problema è anche l'atteggiamento del Ministero, e Cutrò non usa mezze parole: "Chi denuncia si aspetta di bussare alla porta dello Stato per trovare un alleato. Noi abbiamo fiducia nello Stato ma ci ritroviamo a dovere inseguire chi ci dovrebbe assistere. Non chiediamo di essere eroi, vogliamo essere trattati da cittadini liberi e non dovere incontrare lo Stato circondati da avvocati per pretendere ciò che ci spetta. Siamo noi lo Stato. Quando le cose non funzionano dobbiamo dirlo. Ma se Bubbico non riuscisse a dare da mangiare alla propria famiglia come li guarderebbe in faccia? Io cosa dico ai miei figli che hanno dovuto interrompere gli studi perché non ho i soldi per pagarli?"
Ma l'abbandono da parte dello Stato non è un segnale devastante, un enorme piacere alla mafia? gli chiedo e lui senza tentennamenti mi dice "basta fare due più due. Se si manda un messaggio distorto ovviamente chi vuole denunciare non lo farà". E diventa difficile pensare che un piccolo emendamento che potrebbe essere così risolutivo rimanga nel cassetto. Una legge che costerebbe così poco e che potrebbe significare moltissimo. Si attendono risposte. "Altrimenti abbiano il coraggio di dire chiaramente che i testimoni di giustizia sono solo un peso" chiude Cutrò. E viene difficile dargli torto.