Don DeLillo esce in libreria con “L’angelo Esmeralda”
Dal 22 Gennaio 2013, è in libreria un nuovo libro di Don DeLillo, “L’angelo Esmeralda” (Einaudi). E’ la prima raccolta di racconti pubblicata da un autore che, in modo prepotentemente unanime, è stato dichiarato dai critici come fra i più grandi degli ultimi decenni e i cui lavori, come “Underworld” e “Rumore bianco”, hanno conosciuto un successo planetario, travolgente e sui generis per la narrativa contemporanea.
Lo stile, il tono ed il rapporto che la prosa crea con il lettore sono un segno riconoscibile ed evidente. De Lillo è uno scrittore, insomma, la cui voce appare singolare, personale, ma confidenziale al contempo. Questa voce così familiare, di uno scrittore che si esprime attraverso immagini nervose, lampi visivi improvvisi, frasi sbilenche e frammentarie, ha accompagnato i suoi lettori attraverso un decennio, creando grottesche allegorie di quello che nella vita reale stava accadendo, ed è unanime che il successo dei suoi libri risieda precisamente in questa dote. Tutti i suoi recensori e critici ne ribadiscono insomma la grande contemporaneità, la profeticità epica, fissandolo nell’immagine di una sorta di riscrittore dell’apocalisse nel nostro secolo. Il suo libro “Cosmopolis” – da cui David Cronemberg ha tratto una delle sue migliori (anche se fra le più macchinose) prove di regista recenti – è la storia di un broker finanziario fobico intrappolato nella sua limousine, mentre la città è in subbuglio a causa di una rivolta anticapitalista, e parte del libro dipinge l’assoluta vuotezza, l’inaridimento psichico di un soggetto divenuto anonima macchina desiderante. Ora, c’è da dire che “Cosmopolis” fu pubblicato nel 2003, ovvero quando ancora la classe dirigente americana aveva molta strada da fare per comprendere il senso degli attentati dell’11 settembre e quando i primi segni della crisi finanziaria di cinque anni dopo incominciavano ad affiorare.
“L’angelo Esmeralda”, tradotto in italiano da Federica Aceto, è invece una raccolta di nove racconti ed è la prima raccolta di racconti di DeLillo, di solito incline a progetti narrativi più o meno ampi; prose brevi scritte nell’arco di molti anni. Il valore di leggere una raccolta di racconti, quasi tutti inediti, scritta in un vasto arco temporale, è precisamente quello di osservare una parabola che segna con una certa precisione il percorso esistenziale della nostra comunità: è un guardarci indietro, per vedere quel che è successo e per sentirci come ci sentivamo sulla soglia del millennio, in preda ad un senso di fine del mondo che poi si è perpetrato meccanicamente per un decennio intero, attraversando in un involucro di alienazione guerre, crisi e catastrofi ambientali. La raccolta comincia dal centro, nel senso che il racconto che dà il titolo all’intero volume è quello più complesso nell’esprimere la poetica di DeLillo, ed è posto al centro del volume. È la storia di una Suora, Edgar – un personaggio estratto dalle ultime pagine di “Underworld” – che vive una sorta di estensione delle vicende di questo celeberrimo romanzo, ma contemporaneamente è protagonista di una storia autonoma, che sembra senza dubbio l’opera narrativa più riuscita, da un punto di vista poetico e strutturale, della raccolta. Suor Edgar vive nel Bronx e dà l’anima per la sua opera di carità verso i meno abbienti di quelle zone di New York City, assieme ad un gruppo di volontari; La metropolitana del Bronx è scossa dalle diafane apparizioni fulminee di una bambina morta, Esmeralda, figura al contempo fantasmale e angelica.
Man mano che l’immagine della bambina diviene un fenomeno di massa, facendo gridare al miracolo, l’autore ci conduce con piglio realista nell’animo di Edgar, spinta sempre più a voler partecipare al credo popolare che accompagna queste apparizioni, coinvolgendo i suoi scettici colleghi. E, secondo uno schema tipico della short-story anglosassone, DeLillo è molto bravo a fermarsi esattamente sulla soglia della verità del racconto, di cui non chiude la parabola, non solo evitando di svelare la realtà degli eventi, ma soprattutto mostrandosi devoto, attraverso questo espediente, a quel che da sempre interessa la sua scrittura, ovvero il senso del sacro, inteso etimologicamente, cioè qualcosa che divide: una teologia della cultura di massa, fatta di soggetti alienati, ciascuno rapito da un’immagine in cui credere che alimenti i propri desideri, le proprie tendenze feticistiche, da un lato offrendo un’opportunità di fede alla nostra coscienza, e dall’altro alienandoci in un mondo nostro, puntuale nella sua verità storica, eppure universale per la nostra coscienza.
Se in questo brano, perfettamente equilibrato a livello strutturale, ritroviamo la patina del DeLillo migliore, con lampi visionari (nell’incipit) che ricordano almeno in piccola parte “Underworld”, non tutti i racconti hanno lo stesso slancio estetico. “Falce e martello”, ad esempio, è un monologo dai tratti deliranti di un detenuto (per crimini finanziari, altro leitmotiv) in cui la scrittura diventa estremamente nervosa e ritmica, alienante, aggrappandosi a ripetizioni ossessive di termini di cronaca ( Crisi, Grecia, Rivolta) e che formalmente, pur di buon livello, non ha lo stesso equilibrio di “Esmeralda”. Un altro racconto buono è “Il corridore”, basato su un gioco di prospettive: è la storia di un uomo che corre intorno al Central Park ed assiste al rapimento di un bambino. La sua visione dell’evento è però spezzata in vari istanti, gli istanti in cui il corridore ripassa, lungo il suo giro, nel punto in cui sta avvenendo il crimine. Ci sono poi analisi di rapporti di coppia: “Creazione”, ambientato in un città caraibica colonizzata da turisti dell’upper class, bloccati da un uragano sull’isola; “Baader Meinof” è un racconto inusuale per DeLillo e forse per questo non riuscitissimo: è la cronaca dell’incontro fra un uomo e una donna in una in una galleria d’arte e di una malriuscita aggressione sessuale; indugiano sul rapporto fra un uomo e una donna anche “Il danzatore d’avorio” e “La denutrita”, quest’ultimo il racconto dell’ossessivo inseguimento, nei cinema di una metropoli, di una donna anoressica da parte di un uomo, spiantato e vittima di un matrimonio infelice.
“Momenti di umanità nella terza guerra mondiale”, è il monologo di un astronauta, racconto in cui, più di tutti gli altri, affiora in modo esplicito, non lettarariamente espresso o subliminale, ma quasi manifesto, la visione sociale di DeLillo: un’astronave ruota intorno alla Terra durante un conflitto mondiale. Questa astronave è, se si vuole, il replicarsi della casa di Jack Gladney, l’accademico del romanzo “Rumore Bianco”, rinchiuso in una villetta a schiera che brucia di desideri commercialmente indotti, mentre fuori si scatenano catastrofi mortali. Come si vede, si alternano ai temi inediti variazioni su tema profonde dell’opera di DeLillo: la reclusione claustrofobica che fa da contraltare alla catastrofe e che quasi si regge sulla catastrofe come polo opposto in cui l’individuo ritrova la propria identità. Il personaggio di questo racconto (che non è però tra i migliori della raccolta) pronuncia una frase icastica della poetica dell’autore:
Questo è un momento di umanità e mi ricorda, tra l’altro, che la guerra è una forma di nostalgia.
È così sintetizzato l’ossimoro al centro di questo contrasto portante nell’opera di DeLillo: l’umanità che può esistere solo al prezzo di un senso constante di autodistruzione e il cataclisma come una specie di rimosso collettivo su cui si basa l’esistenza della classe media americana, non dissimile agli astronauti nello spazio durante la terza guerra mondiale.
Da ultimo si segnala un racconto che colpisce, invece, per la coerenza strutturale, se non quanto Esmeralda, almeno in modo da spiccare fra gli altri. “La Mezzanotte di Dostoevskij” è un racconto basato su una tensione veramente kafkiana: è la storia di due studenti che iniziano a fantasticare morbosamente su di un vecchio che vive nella loro cittadina universitaria. La prosa è, come in altri racconti, nevrotica e pulsiva, mettendo alla prova il lettore con una sintassi piena di variazioni e che sovrappone in modo alienante il dialogo e la narrazione. Tuttavia, se chi legge vince la prova di uno stile complesso, potrà trovare un racconto ben strutturato e basato in modo convincente sull’effetto di straniamento.
“L’angelo Esmeralda” è nel complesso una raccolta che porta con sé il segno di una maturità degna di un autore classico. Nove racconti disposti a cupola, con il testo eponimo al centro ed altre prose brevi che ne fanno da controcanto e sono tracce di quello che DeLillo è già stato (ben prima di questo libro) e probabilmente sarà anche poi. Qualcosa di raro, un esempio vivente del canone occidentale, ovvero una sorta di precipitato verbale, una narrazione già eletta simbolo della nostra vita collettiva.