Trentatré anni che Pippo Fava è stato ammazzato. Trentatré anni di resistenza etica da parte dei suoi carusi per non lasciare che la morte di Fava si atrofizzasse in un santino antimafioso buono per una commemorazione all'anno, trentatré anni a lavorare perché Pippo Fava non è solo un giornalista ammazzato dalla mafia ma è soprattutto un modello di giornalismo e una forma mentale di una curiosità che sembra così difficile provare ad immaginare ancora. Ammazzato, certo. Quei cinque colpi sparati da dietro (senza farsi vedere in faccia, come nella migliore tradizione della vigliaccheria mafiosa) sono il morso di una belva che non riesce a immaginare altro modo per farlo stare zitto: Pippo Fava viene assassinato in via dello Stadio, di fronte al Teatro Verga di Catania dove era appena arrivato, cronicamente in ritardo, per vedere recitare il nipote in Pensaci, Giacomino! Cinque colpi ordinati da quel Nitto Santapaola che di Catania era il "padrone" oltre che il boss di Cosa Nostra e che stupidamente pensò che davvero la polvere da sparo bastasse per spegnere una storia oltre che uccidere una persona.
Un penna eretica, quella di Fava, per niente ubbidiente ai poteri e ai pensieri che garantiscono una carriera tranquilla, una casa, uno stipendio e la gratitudine di chi guadagna grazie anche alla disattenzione della stampa tutto intorno. «A volte basta omettere una sola notizia – scriveva Fava – e un impero finanziario si accresce di dieci miliardi; o un malefico personaggio che dovrebbe scomparire resta sull'onda; o uno scandalo che sta per scoppiare viene risucchiato al fondo»: il senso del suo scrivere è tutto qui, nell'inseguire ciò che non si vorrebbe detto. Quando nel 1956 viene assunto da "Espresso sera" per occuparsi da caporedattore di calcio e cinema non riesce a tacere di fronte alla cronaca e alla mafia: le sue interviste ai boss di Cosa Nostra Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini sono i segnali di un'ossessione (per la legalità, la libertà e la giustizia) che non riesce a trattenere.
Quando nel 1980 diventa direttore del "Giornale del Sud" (portandosi in redazione come giovani collaboratori Rosario Lanza, Antonio Roccuzzo, Michele Gambino, Riccardo Orioles e suo figlio Claudio Fava) il quotidiano abbandona i lidi della sopravvivenza tranquilla per affrontare i temi più spinosi: si comincia a leggere dei traffici di droga su Catania gestiti da Cosa Nostra, si alza la voce contro la costruzione della base missilistica americana di Comiso, si osteggia apertamente il boss Alfio Ferlito invocandone l'arresto e si comincia a curiosare lì dove politica, imprenditoria e mafia si incontrano oscenamente per convergere nei loro affari. È il giornalismo che non teme nemmeno i suoi padroni, il giornalismo che non balbetta quando c'è da mettere in pagina i cognomi che contano; e infatti arriva il tritolo (con l'attentato fallito), la censura (di una prima pagina tutta sugli affari illeciti di Ferlito) e infine il licenziamento.
E che fa Pippo Fava? Si rimette in moto, instancabile: con il mensile "I Siciliani" (stampato con due rotative Roland comprate usate con cambiali) insiste e alza il tiro. La storia antimafiosa di questo Paese è segnata da chi piuttosto che farsi intimidire dalle minacce ne trae linfa per una lotta ancora più intensa contro le ingiustizie: accade con Fava, con Peppino Impastato, con Beppe Alfano. Lo storico primo articolo di Fava su I Siciliani ("I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa", in cui attacca la borghesia mafiosa catanese) è giornalismo color cristallo: c'è dentro la cronaca, l'inchiesta e la chiave di lettura di una città e di un'epoca. Perché Pippo Fava, nonostante si dimentichi in fretta, è stato un intellettuale a tutto tondo: dalla narrativa, alla saggistica, al teatro, alla televisione fino alla sceneggiatura cinematografica è stato uno sperimentatore in tutti i campi. Ha osato la penna, oltre che usarla. E ha osato la parola. Sempre.
Per questo Pippo Fava ci manca tantissimo: per quel suo essere capace di raccontare un Paese intero dalla cronaca di un vicolo di Catania, per quel suo intravedere un futuro terribile ma mantenere intatta la voglia di raccontarcelo con pazienza e arte. Un intellettuale, insomma. E quanto ci manca, oggi.