Blob compie 25 anni: intervista a Enrico Ghezzi
Era il 17 aprile 1989 quando sulla terza rete della Rai, guidata allora da Angelo Guglielmi, apparve per la prima volta sugli schermi un insolito programma dal titolo: “Blob”, citazione dal film “Blob – Fluido mortale” di Irvin S. Yeaworth jr, cult movie degli anni ’50 in cui peraltro fece il suo debutto al cinema il mitico Steve McQueen.
Ed è proprio con questo film – le cui scene fanno da sigla al programma – che venerdì 18 alla Sala Trevi di Roma, Enrico Ghezzi, aprirà la celebrazione del venticinquesimo anniversario di Blob che ha ormai superato le 7.400 puntate: “Festeggiamo – ha dichiarato Ghezzi alla sua maniera – venticinque anni di continuo scrutare oscuro la matassa o il gomitolo della distanza impercettibile che la tv prevede e provvede per la nostra vita”.
“Blob”, dunque, con il suo quarto di secolo è uno dei programmi più longevi della tv e forse uno dei più emblematici poiché fin da subito ha incarnato, e probabilmente tutt’oggi continua a incarnare, uno dei paradigmi fondamentali della società contemporanea, della tv, dei media in generale. Infatti, con la sua destrutturante struttura “casuale”, il suo mash-up di immagini divergenti, il suo accavallamento dei codici e ritessitura degli stessi, ha dato forma, sottraendola allo stesso tempo, a quell’iceberg inconoscibile che chiamiamo postmodernità.
Ma c’è dell’altro, unico è stato il suo modo di affrontare l’immenso archivio Rai, sfruttandolo “non più solo per la celebrazione automatica e accademica di anniversari vari intrecciati e di eterni ritorni di salme più o meno ‘culturali’, ma quale detonatore di una carica (quella del palloncino o del globo planetario o della curvatura spaziale) che dava luogo a una sorta di ‘anarchivismo’ diffuso atto a far saltare le convenzioni nelle quali dai Lumière in poi ci si illude di poter confinare e amministrare la terribile e appassionante ambiguità dell’Immagine”.
Un’operazione, come è evidente anche da queste dichiarazioni estratte dal comunicato della redazione di Blob, che ha una gestualità dadaista, situazionista (è noto il legame che Ghezzi ha, tra gli altri, con Guy Debord) e che ha avuto però il merito di intravedere con largo anticipo uno dei grandi problemi, o se si vuole, dei grandi temi del contemporaneo: la gestione, l’orientamento, la “logica” dell’archivio, del database, che in programmi come Blob esplode si espande e poi si ricompone nuovamente come un meccanismo sempre in tensione, in continuo divenire. In altre parole, Blob ha dato concretezza, pur nella sua intrinseca ambiguità, a concetti su cui studiosi, massmediologi e i teorici in generale hanno discusso ampiamente in altre sedi, il tutto però a portata di telecomando, in forma/non forma televisiva.
Per questo e per tanti altri motivi Ghezzi con “Blob” e, non dimentichiamo, “Fuori Orario” (che tra l’altro si accinge prossimamente a tagliare lo stesso traguardo del quarto di secolo) ha interpretato forse meglio di chiunque altro il ruolo della critica nella società odierna. Di una critica, ad esempio, che facendo suo il linguaggio del proprio tempo lo declina in forme anche provocatorie, rischiando senza freni di cadere nell’ambiguo, o peggio ancora, nel superfluo. Però è sempre attenta anche a ciò che non è in vista, (in questo senso "Fuori orario, cosa (mai) viste"fa da perfetto contrappunto) che sfugge o perché sepolto sotto la coltre di immagini e informazioni eterodirette o perché troppo in vista. Oggi alcuni si chiedono perché “Blob” non si rinnovi, mutando forma(t) o linguaggio, ma, ci chiediamo noi, come fa a mutare ciò che è mutante per sua stessa natura?