Il governo Renzi punta a modificare il mercato del lavoro, in realtà riformato più volte in questi anni. Al centro di una dura battaglia politica, l'articolo 18 è avvolto da miti e leggende. E questo è il nostro debunking.
– Articolo 18: storia, cosa prevede e a chi si applica
– Riforma Fornero
– Primi risultati della riforma Fornero
– Il mercato del lavoro in Italia, un confronto europeo
– Cosa prevede la proposta Renzi
– La discussione intorno alla riforma del lavoro
– Tutele e licenziamenti, come funziona in Europa
Articolo 18: storia, cosa prevede e a chi si applica
Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori diventa legge. Un testo – n. 300/1970, "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento" – redatto da una commissione nazionale voluta dall'allora ministro del Lavoro Giacomo Brodolini e presieduta da Gino Giugni, professore universitario. Lo Statuto, arrivato dopo un periodo di lotte sindacali e politiche, è stato uno spartiacque per quanto riguarda le condizioni di lavoro, introducendo rappresentanze sindacali, diritto di opinione, di assemblea, permessi.
L'articolo 18 stabilisce che un lavoratore (con contratto a tempo indeterminato) licenziato può rivolgersi ad un giudice per essere reintegrato. Se nel processo vengono stabiliti "irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro", certificando quindi che il licenziamento è illegittimo, deciso cioè senza una giusta causa o un motivo giustificato, il dipendente torna al suo impiego con la stessa posizione e stipendio di prima.
Il reintegro prevede anche un risarcimento che corrisponde di norma ai soldi che il lavoratore ha perso dal momento del licenziamento a quello del ritorno (indennizzo che non può essere inferiore a cinque mesi di stipendio). Inoltre, il datore di lavoro è "condannato, per il medesimo periodo, al versamento di contributi previdenziali e assistenziali".
Una volta vinta la causa, il lavoratore può comunque decidere di non tornare al proprio impiego e chiedere al datore di lavoro un'indennità pari a 15 mesi di busta paga.
L'articolo 18 si applica alle aziende con più di 15 dipendenti (5 nel caso di aziende agricole), a quelle con più di 15 dipendenti nello stesso Comune anche in unità produttive più piccole (5 se agricole) e alle imprese con più di 60 dipendenti.
In Italia, secondo i dati della Cgia di Mestre, l'articolo 18 «riguarda il 2,4% delle aziende ed il 57,6% dei lavoratori dipendenti italiani occupati nel settore privato dell'industria e dei servizi».
Per l'80% dei nuovi contratti, riporta il Sole 24 ore, l'articolo 18 non vale, perché dai dati del secondo trimestre dell'anno:
Le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sfiorano appena il 15% gli apprendistati il 3,1%, tutto il resto è flessibile. (…) Bisogna poi considerare che solo una parte di quel 15% di assunzioni standard è avvenuta in un'azienda con più di 15 dipendenti, unico ambito in cui oggi vale la tutela reale contro i licenziamenti senza giusta causa.
Riforma Fornero
Nel 2012 il governo Monti, con il suo ministro del Lavoro Elsa Fornero, ha modificato l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Alla base della legge n. 92/2012 (entrata in vigore il 18 luglio 2012) – "Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita" – c'è la volontà di creare «nuove regole molto più favorevoli al lavoro», come affermato in un'intervista al Wall Street Journal. L'obiettivo era quello di realizzare "un mercato inclusivo e dinamico", utile "alla creazione di occupazione, in quantità e qualità" e "alla riduzione del tasso di disoccupazione".
Nello modifica all'articolo 18 la riforma Fornero ha puntato a una maggiore flessibilità in uscita tramite una riduzione dei casi di reintegro, con dei limiti all'indennità che il lavoratore può chiedere. Per affrontare il problema della lunghezza delle cause di lavoro, l'ex ministro ha creato un rito speciale per le controversie sui licenziamenti.
Nella tabella le differenza nei licenziamenti prima e dopo la riforma Fornero.
Primi risultati della riforma Fornero
Il comitato per il monitoraggio della legge n. 92/2012, formato durante il governo Letta, ha studiato il primo impatto del provvedimento dell'esecutivo di Mario Monti sul mercato del lavoro. Dal report prodotto (il periodo analizzato arriva al primo trimestre 2013) emerge che «la riforma non sembra aver sollecitato le imprese a un maggior ricorso a forme di lavoro standard per le giovani generazioni» – ci sono state però delle riserve sulla valutazione e disponibilità pubblica dei dati -. Scrive Claudio Tucci sul Sole 24 ore
Sul fronte della flessibilità in entrata, si segnala il calo dell'utilizzo del contratto a tempo indeterminato «che nel secondo trimestre 2013 ha interessato in egual misura le donne (-10,1%) e gli uomini (-10,3%). Leggerissima crescita del contratto a tempo determinato (+0,2% nel terzo trimestre 2013). A crescere sono soprattutto i contratti a tempo di durata brevissima, 1-3 giorni: nel terzo trimestre 2013 (sull'anno) si osserva un incremento del 4,6%.
Per quanto riguarda l'attivazione dei contratti di apprendistato, che doveva essere uno dei punti di forza della riforma, «nel secondo trimestre 2013 sono solo il 2,7% dei 2,7 milioni di contratti totali, una quota in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2012». Inoltre, continua il giornalista, «si osserva un crollo del numero di contratti attivati riservati a giovani fino a 19 anni (-40% su base tendenziale nel secondo trimestre 2013), e un calo del 9,7% per la fascia d'età 25-29 anni». Nel monitoraggio è anche descritta la flessione del numero medio di apprendisti trasformati in contratti a tempo indeterminato: «tra aprile e giugno 2013 sono stati trasformati solo l'1,3% dei contratti attivi (appena 6.013), il 14% in meno su base tendenziale con una maggiore accentuazione del fenomeno per le classi di età più giovani».
Nello specifico delle modifiche all'articolo 18, Cristina Giorgiantonio in un studio realizzato per il centro studi Massimo D'Antona, spiega l'effetto della legge Fornero sui casi di reintegra e i risultati del nuovo rito speciale per la cause di lavoro. Le conclusioni a cui giunge, «con tutte le cautele dovute all'esiguità del campione», sono che per quanto riguarda l'obiettivo di aumentare la flessibilità in uscita, sembra ci sia una riduzione parziale del reintegro del lavoratore. Tuttavia, spiega Giorgiantonio:
la riduzione dell’ampiezza della tutela reintegratoria sembra interessare prevalentemente l’area del licenziamento per ragioni oggettive e molto meno i casi di licenziamento disciplinare, che rappresentano la quota più significativa del campione (65 per cento) e nell’ambito dei quali tale tutela continua a essere applicata in oltre i tre quarti dei casi.
L'analisi ha dimostrato anche il crearsi di «contrasti interpretativi delle norme che rischiano di alimentare l'incertezza per aziende e lavoratori e quindi anche il contenzioso». Riguardo al nuovo rito, la studiosa conferma una limitata accelerazione dei giudizi sui licenziamenti. Ma che tale «accelerazione si sta verificando a fronte di una consistente duplicazione di giudizi prima introdotti unitariamente, con inevitabile ulteriore appesantimento della giustizia del lavoro».
Il mercato del lavoro in Italia, un confronto europeo
Per quanto riguarda la disoccupazione, secondo i dati Ocse, l'Italia ha una situazione peggiore rispetto a Regno Unito, Francia e Germania. Una dato che a fine anno in Italia, sempre secondo l'organizzazione internazionale economica, arriverà al 12,9%.
Altro punto è il costo del lavoro che Renzi, ospite a Porta a porta, ha auspicato di tagliare con la prossima legge di stabilità. L'Eurostat ha calcolato – considerando le imprese con più di 10 dipendenti, con l'esclusione dell'agricoltura e della pubblica amministrazione – che dal 2008 al 2013 è aumentato dell'11,4%, un dato superiore alla media dell'Eurozona di 10,4%. A crescere però non sono stati gli stipendi dei lavoratori, ma i costi non salariali, cioè le tasse a carico dei dipendenti e datori di lavoro. Riguardo al valore assoluto l'Italia (28,1) è poco sotto la media tra i paesi che hanno come moneta l'euro (28,4 euro) e con un netto distacco da Germania (31,3) e Francia (34,3).
Ulteriore problema è la bassa produttività italiana (37,2) che, secondo la classifica dell'Ocse, ci posiziona dietro la Francia, Germania, Spagna, Regno Unito e la media dell'area euro (43,7). Peggio di noi solo il Portogallo e la Grecia.
A sorprendere è il dato fornito dall'indice delle tutele dei lavoratori (con contratto a tempo indeterminato). I dati dell'Ocse, come si può vedere nel grafico, dimostrano che non è vero che i lavoratori italiani sono i più protetti. Inoltre, se in molti altri Paesi l'indice è rimasto stabile, quello italiano tra il 2012 e il 2013, è sceso da 2,76 a 2,51 dopo le modifiche all'articolo 18 della riforma Fornero.
Cosa prevede la proposta Renzi
Il disegno di legge delega – n. 1428 "Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro" – è il testo (composto da 6 articoli) con cui il governo Renzi interverrà sul mercato del lavoro. Essendo una delega la norma è fondata su principi che saranno poi chiariti con i decreti legislativi – entro 6 mesi da quanto la legge entrerà in vigore -.
Gli obiettivi prevedono una riorganizzazione degli ammortizzatori sociali, "semplificando le procedure amministrative e riducendo gli oneri non salariali del lavoro" (art. 1) e un riordino degli incentivi per il lavoro e delle politiche attive (art.2). Inoltre, il governo intende semplificare e razionalizzare le "procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro" (art.3), rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro, nonché riordinare "i contratti vigenti per renderli maggiormente coerenti" con l'attuale mercato del lavoro (art. 4) e creare misure di tutela per la maternità delle lavoratrici e della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (art 5.).
Il punto 4 è quello che tocca lo Statuto dei lavoratori. Con l'approvazione in commissione dell'emendamento 4.1000 (alla lettera b), che prevede la creazione del contratto a tutele crescenti per le nuove assunzioni, il governo punta al superamento dell'articolo 18. Come spiega Il Post, sono previste modifiche al testo del 1970 anche all'articolo 4 (che prevede il divieto delle tecniche di controllo a distanza del lavoratore) e al 13 (che vieta che un lavoratore possa essere spostato a mansioni diverse per le quali è stato assunto "o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito"). Mancano però ancora i dettagli su come il governo vorrà muoversi. Durante il suo viaggio in America, Renzi ha detto che presenterà quest'oggi, in direzione Pd, le proprie idee, che saranno discusse e poi votate. In un'intervista rilasciata ieri a Repubblica il presidente del Consiglio, ha spiegato che la volontà è quella di cambiare «tutto lo Statuto dei lavoratori», aggiungendo che l'articolo 18 va tenuto solo per i casi di discriminazione. Per tutto il resto, «indennizzo e presa in carico da parte dello Stato».
La discussione intorno alla riforma del lavoro
Vari i soggetti che stanno animando la reazione alla linee guida della riforma del lavoro del governo Renzi. All'interno dello stesso Partito democratico sono state presentate varie proposte alternative. La minoranza piddina guidata da Giuseppe Civati ha proposto una riforma che prevede tra le varie cose investimenti "sul lavoro di qualità", un disboscamento "della giungla del precariato" e la garanzia di "un reddito minimo a tutti i senza lavoro". Altra parlamentari democratici hanno invece elencato 7 emendamenti che non contrastano "l'impianto della delega" ma si pongono l'obiettivo di «precisare alcuni contenuti su dei punti dirimenti rimasti incerti», come anticipare l'approvazione delle tutele rispetto alla riforma dei contratti o puntare a ridurre il costo del contratto a tempo indeterminato per «riconoscere al lavoratore una prospettiva di aspirare a un rapporto stabile».
Le opposizioni. Sel e Movimento stelle hanno bocciato il disegno di legge delega presentando insieme più di 500 emendamenti dei 638 totali arrivati in Senato. Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia al Senato, ha chiarito che l'«appoggio ancora non c'è, in attesa di una discussione nel merito delle proposte».
Riguardo alle parte sociali, il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, ha detto che «sull'articolo 18 siamo disponibili al dialogo, ma guai a toccare le forme di tutela che ci sono già». Prima di dimettersi da segretario della Cisl, Raffaele Boninni, ha dettato la linea del sindacato: «se si vuol combattere davvero il precariato, siamo pronti a trattare su tutto, anche sull'art. 18», specificando però che non si capisce perché «la necessaria gradualità delle tutele debba rimettere in discussione il diritto al reintegro nei confronti dei licenziamenti palesemente ingiustificati (al pari di quelli discriminatori)». Ai primi di settembre la Cigl ha annunciato per il mese di ottobre manifestazioni per «far conoscere cos'è il lavoro in Italia e quali sono le sue condizioni». Anche il sindacato della Fiom si è detto pronto a scioperi e mobilitazioni nello stesso mese «a sostegno di una serie di richieste che riguardano il mondo del lavoro». La scorsa settimana Susanna Camusso, segretario generale della Cigl, ha detto di essere pronta a discutere sui tempi del periodo di prova: «capisco che ci sia una stagione» in cui «l'articolo 18 non vale» ma è necessario «che sia transitoria». Due giorni fa però il segretario della Cigl è tornata sul tema, avvertendo il governo: «Se si deciderà di procedere con il decreto bisogna proclamare lo sciopero generale».
Sostegno all'azione del governo arriva da Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, che sull'articolo 18 dice «sarebbe meglio abolire perché frena gli investimenti».
Tutele e licenziamenti, come funziona in Europa
Francia: La normativa di riferimento è il "Code du Travail". Nei licenziamenti si parte dalla distinzione tra quelli per motivi riguardanti la persona del lavoratore e per quelli economici. Per quanto riguarda i primi la fine del contratto di lavoro può avvenire solamente per "una causa reale e seria", basata su fatti oggettivi. Il licenziamento deve essere comunicato tramite lettera per iscritto con almeno un mese di preavviso. Il licenziamento economico può esserci per soppressione dell'impiego del lavoratore, per difficoltà economiche, come un grande indebitamento, o per riorganizzazione dell'impresa. Entrambi i licenziamento possono essere contestato dal dipendente al "conseil des prud’hommes". Se quest'organo giudica il licenziamento deciso senza una causa reale e seria, può decidere per il reintegro a cui però il datore si può opporre. Se accade, il giudice può disporre di un indennizzo non inferiore a 6 mesi di mensilità. Nel caso ci sia la nullità, come per i licenziamenti discriminatori, scatta di diritto la reintegra e il datore di lavoro non può opporvisi.
Spagna: Nel 2012 il governo Rajoy ha approvato una riforma del lavoro che, scrive il Sole24ore, ha cercato «di rendere meno rigido il mercato del lavoro, in primis innalzando da 6 mesi a un anno il periodo massimo di prova durante il quale è consentito alle parti il libero recesso». Inoltre, la reintegra è divenuta facoltativa. «Il dipendente a tempo pieno può essere licenziato anche senza giusta causa. L'azienda è tenuta solo a versargli un risarcimento», ridotto con la riforma a 20 giorni lavorativi invece di 45 per un'annualità (per 12 anni al massimo) per le imprese in difficoltà, 33 per le altre (per 24 anni invece di 42).
Germania: La “Kundigungsschutzgesetz” è la legge principale che regola i licenziamenti in Germania e si applica alle imprese con più di 10 addetti. Il termine del contratto di lavoro deve essere giustificato da motivi soggettivi o economici. Prima di licenziare il datore di lavoro deve consultare il Consiglio di Fabbrica (interno all'azienda). Questo organo formato dai sindacati può decidere di opporsi al licenziamento e il lavoratore mantiene il posto di lavoro fino al termine del procedimento giudiziario. È prevista la reintegra nel caso il licenziamento sia ritenuto privo di giustificato motivo soggettivo od oggettivo. Per l'azienda però c'è la possibilità di provare, nel caso un licenziamento sia stato giudicato illegittimo, che non può essere portata avanti una collaborazione proficua con il lavoratore. Procedimento che porta l’organo giurisdizionale a dichiarare sciolto il rapporto di lavoro, condannando il datore di lavoro al pagamento di un'indennità, da 12 a 18 mensilità a seconda dell'anzianità.
Regno Unito: l’Empoyment Relation Act regola la tutela dei licenziamenti, prevista solamente per i dipendenti che lavorano da un anno ininterrottamente in un'azienda. L'illegittimità dei licenziamenti si configura per motivi discriminatori, legati all'attività sindacale o dovuti al trasferimento d'azienda. Il giudice può decidere per la reintegra (che si divide in «reinstatement», cioè nello stesso posto e in «reengagement», in un posto diverso e comparabile a parità di retribuzione) o per l'indennità. Il primo caso viene applicato molto raramente. Il giudice il più delle volte decide per un alto risarcimento, che si innalza ulteriormente se il datore di lavoro non segue la procedura che caratterizza il recesso (il periodo del preavviso dipende dal tempo in cui il lavoratore è stato dipendente).
Danimarca: Vige la flexicurity, un modello che garantisce alle aziende maggiori margini per i licenziamenti (la reintegra è prevista per legge, ma non è molto applicata). Al contempo però una maggiore tutela è concessa ai dipendenti licenziati, che percepiscono un sussidio, pagato dal datore di lavoro, corrispondente al 90% dell'ultima retribuzione per il primo anno di disoccupazione, che scende di 10 punti percentuali, fino al 60% per il quarto anno. L'azienda, inoltre, tramite corsi di formazione, aiuta il lavoratore nella ricerca di un nuovo lavoro. Sono dei servizi che hanno un alto costo. La Danimarca infatti è tra i Paesi che spende di più per le politiche attive nel lavoro, al 2,6% del Pil.